domenica 26 luglio 2020
Don Italo Girardi aveva appena 28 anni, quel 23 luglio 1970, quando accompagnò i suoi ragazzi in gita al Laghetto degli Asini, in Val Tolvà, nel Tesino. Era cappellano da quattro anni in un borgo del Veneto pedemontano. Un'escursione impegnativa, quasi 800 metri di dislivello a piedi, la fatica affrontata tutti insieme, senza lasciare indietro nessuno e infine la meta conquistata, a quota 2000. Bellissimo. Poi la tragedia. Un ragazzo finisce nelle acque gelide del laghetto, annaspa, chiede aiuto. Don Italo si lancia in suo soccorso. Il ragazzo si salva, don Italo no.
Giovedì scorso don Italo è stato ricordato a 50 anni dalla tragedia. Ha ricevuto la medaglia d'oro al valor civile e gli sono state intestate due scuole, nel borgo natio e in quello adottivo (Borso del Grappa, diocesi di Padova) e una strada. Il tempo ha scavato un piccolo abisso. Ma c'è ancora chi fu presente al fatto; e chi lo ricorda. Ogni anno un gruppo di pellegrini sale a piedi fino al laghetto, dove c'è una targa commemorativa; un centinaio di loro sono saliti anche domenica scorsa, per una Messa celebrata da due compagni di Seminario di don Italo.
I preti che in genere "passano alla storia" sono i grandi fondatori, educatori, intellettuali; i predicatori talentuosi, i martiri, i profeti. Don Italo, che "alla storia" non passerà mai, rappresenta comunque qualcosa di importante, importantissimo, decisivo: la capacità, la forza, l'eroismo di essere padre.
Padre è la parolina di oggi. Parolina perduta, denigrata, smarrita. "Padre" è spesso associato ad "assenza". I padri latitano, si nascondono, svaniscono, non sanno più essere tali. Oppure si trasformano in padroni, parolaccia che puzza di autoritarismo e violenza, psicologica e fisica. Chi non sa essere padre, autorevole perché amorevole, ancor oggi può tramutarsi in padrone, un sovrano assoluto che dispone arbitrariamente delle vite altrui, anziché mettersi al loro servizio. In altri casi la parolaccia è patrigno, tipica di chi esercita una paternità malata, manipolatrice, che non libera ma assoggetta i figli, rendendoli insicuri e vuoti.
Don Italo, che nello spazio di un secondo compie la sua scelta e si getta nelle acque ghiacciate del laghetto alpino per salvare un suo figlio in pericolo, ci parla della vocazione dei nostri preti alla paternità. Per loro non esiste appellativo migliore, più bello e ricco di significato di "padre". Un padre dona la vita per i propri figli. Non li abbandona mai. Li soccorre e li corregge, se necessario, ma mai li giudica, tanto meno li condanna. Mai un figlio deve dubitare dell'amore del padre e così dev'essere anche nella Chiesa.
«La paternità è dare vita agli altri, dare vita, dare vita... Per noi sarà una paternità pastorale: ma è dare vita, diventare padri». Così si esprimeva papa Francesco il 26 giugno 2013 nell'omelia alla messa di Santa Marta. E proseguiva: «Un padre sa che cosa significhi difendere i figli. E questa è una grazia che noi preti dobbiamo chiedere: essere padri. La grazia della paternità: della paternità pastorale, della paternità spirituale. Tutti abbiamo peccati. Ma non avere figli, non diventare padre, è come se la vita non giungesse alla fine ma si fermasse a metà cammino. Perciò dobbiamo essere padri. Ed è una grazia che il Signore dà. La gente ci chiama così: "Padre, padre, padre...". Così ci vuole, padri, con la grazia della paternità pastorale».
Don Italo, a 28 anni appena, fu chiamato a essere padre fino in fondo, senza mezze misure. A lui, e a quelli come lui, anche oggi possiamo affidarci noi padri incerti e insicuri, per chiedere il dono di saperci gettare nei mille laghetti ghiacciati disseminati sul percorso della nostra vita.
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