sabato 24 maggio 2014
Sono nella piazza del Santo a Padova. Così viene chiamata l'immensa chiesa dedicata a Sant'Antonio dove le porte sono sempre aperte a un pubblico che entra ed esce senza fare rumore per molte ore del giorno. A riparo dal sole mi godo la pace e la vista di questa costruzione che porta una facciata a capanna, in stile lombardo, quasi a nascondere un continuo succedersi di contrafforti, tamburi cilindrici, calotte emisferiche, campanili a cuspide. Nella ricca cappella al centro della chiesa in silenzio una lunga fila di gente attende il proprio turno per appoggiare per qualche istante le mani sulla tomba di sant'Antonio. Fuori la città vive i suoi mercati, le piazze, i caffè eleganti e il suo parlare, trascinato e gentile, di una gioventù vivace che riempie i grandi palazzi dell'università, antichi di storia e di studi. La leggenda racconta che intorno al 1182 a.C. Antenore, scampato alla distruzione di Troia, arrivò sulle coste dell'alto Adriatico e seguendo il corso di un fiume mise le fondamenta della città. La storia invece parla di lotte con i Galli, di invasioni di barbari, di potere di vescovi fino a questo padre Antonio, studioso di teologia, passato dagli agostiniani ai francescani minori, nato a Lisbona e morto qui nel 1231. Padova, ogni 13 giugno, ne ricorda il nome con una processione che sembra non avere fine, espressione di questo strano mondo in cui viviamo, spesso privo di fede e di virtù, ma pronto a credere ancora nei miracoli di un santo antico che promette di ascoltare le richieste se accompagnate dalla preghiera. E da un'offerta. In un momento di distrazione non trovo più i miei occhiali; sto cercandoli, quando una donna mi passa vicino e mi chiede: «Hai perduto qualcosa cosa? Prega il santo: lui te la fa trovare se gli metti una moneta nella scatola delle elemosine». Mi sembra un giusto baratto e appena sentito cadere il mio euro nella cassetta, vedo gli occhiali nella borsa. Non racconto l'episodio agli studenti dell'università che mi hanno invitato a passare un'ora con loro, per ricordare assieme i miei anni di studio, la vita del dopoguerra, il risorgere della democrazia nel nostro Paese, la forza di una politica onesta, ma soprattutto l'inizio dell'idea di un'Europa unita e la speranza ed il lavoro per il suo futuro. Alla fine mi sento dire: «Dobbiamo imparare ad amare questa terra così ricca di diversità e di ingegno, d'arte e di scienza. Dobbiamo riconoscere in ogni Paese del Vecchio Continente la nostra patria europea e curarci di lei, del suo presente e degli anni che verranno».
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