martedì 16 maggio 2017
Mattinata dal ferramenta. Assolutamente affascinata da quei vecchietti che davanti agli scaffali dissertano in milanese di brugole e viti autofilettanti a croce Phillips. Gli chiederei la mano, non avessi già marito.
Vorrei essere una muratora. Riempire il furgone di tutto quello che serve per «fare su» una casa. Materiale inerte - cemento, mattoni, intonaco, piastrelle - da trasformare in una cosa viva che possa riempirsi di felicità.
La mia vita ideale sarebbe questa: scrittura e lettura in aurora, forma di meditazione prima della luce del giorno; e lavoro materiale in die, esplosione creativa e in solido di tutte le energie accumulate nel raccoglimento. Spaccandosi anche - un po' - la schiena, altrimenti non vale. La fatica è pedagogica, insegna a sopportare.
Non so se sia proprio il classico ora et labora, ma credo gli somigli.
Non c'è solo la robotizzazione, c'è anche la smaterializzazione del lavoro. I ragazzi crescono con le mani atrofiche. Guardano sbigottiti il rubinetto che sgocciola e se gli dici "guarnizione" vanno a googlare. Si ammazzano di pesi in palestra ma si sentono snobilitati dalla pesantezza della materia. Perdendo il contatto con la quale, si perde molto. Il senso del limite. Lo spirito che vola via libero dal corpo impegnato e gravato. La gioia di partecipare alla creazione. E possibilmente di goderne i frutti nella convivialità.
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