giovedì 26 marzo 2020
Il 9 marzo in molte carceri d'Italia si sono avute rivolte violente che in alcuni casi hanno causato morti tra i detenuti e numerosi feriti tra gli agenti della Polizia penitenziaria. La rivolta qui a Rebibbia è scoppiata all'improvviso come un temporale d'estate (molti detenuti si sono dissociati preferendo il dialogo alla violenza) ed è stata sedata dopo un confronto con le autorità competenti, alle quali una rappresentanza di detenuti ha comunicato le proprie richieste. La paura del contagio da coronavirus è stata la miccia che ha fatto esplodere il malcontento, che tuttavia già cova da tempo dentro le carceri. In primis per il sovraffollamento.
A causa del Covid-19, per la loro sicurezza, sono stati bloccati i colloqui con i familiari, con i volontari e con gli “articoli 17” (intermediari tra la comunità carceraria e la “società libera” per la risocializzazione dei detenuti) e quindi suore, seminaristi, sacerdoti volontari e rappresentanti di altre religioni. A ciò si aggiunge l'attività a scartamento ridottissimo dei tribunali: processi rinviati, avvocati invitati a non entrare in carcere per l'incolumità stessa dei loro assistiti. Il carcere, per altro, ha preso tutte le precauzioni possibili: isolamento per i detenuti con la febbre e visite mediche all'ospedale per i casi più sospetti. Nel momento in cui scrivo, nessun caso di coronavirus qui a Rebibbia. Tanto che, personalmente, mi sento più sicuro dentro che fuori. In carcere ci si è dotati di mascherine (poche, come è all'esterno), guanti e flaconi per l'igiene delle mani. Settimanalmente viene fatta la sanificazione di tutti gli spazi interni. Ai detenuti, ovviamente, viene richiesta collaborazione nel mantenere pulite le celle. Sono state anche aumentate le possibilità per i reclusi di telefonate e videochiamate via Skype. Il limite è che non tutti, soprattutto gli stranieri, hanno soldi per potervi accedere e, nel limite delle possibilità, ci pensiamo noi sacerdoti anche con soli 5/10 euro di ricarica.
Ma la paura del contagio è molta e la preoccupazione aumenta con i nuovi arrivi, ai quali viene fatto un pre-triage medico con la speranza che basti. Ora siamo di fronte a una calma apparente e il rischio che possa finire da un momento all'altro si respira ogni giorno. Va detto chiaramente, però, che se a Rebibbia le cose finora non sono degenerate è anche grazie all'incredibile lavoro silenzioso e al tentativo costante di dialogo che stanno portando avanti la direttrice Rosella Santoro, il comandante Luigi Ardini, l'ispettore superiore Luigi Giannelli e tutti gli agenti della Polizia penitenziaria. Encomiabili. È importante che lo Stato non li lasci soli e dia le risposte che servono. Prima fra tutte la diminuzione rapida e certa del numero dei detenuti nelle celle, mandando a casa chi ne ha diritto nel rispetto delle ultime direttive emanate.
Padre Stimmatino, cappellano Casa circondariale maschile
“Nuovo Complesso” di Rebibbia
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