sabato 26 giugno 2021
Paavo nasce nella casa più povera della via a Turku, Finlandia. In sei in una stanza, senza acqua né luce. Inizia a camminare da piccolo, e non smette più. Si scopre atleta sotto le armi, marciando con fucile e zaino pesante. Si può anche correre, e Paavo corre. Ha ritmi da fonderia, con lui non c'è gara. Vince 9 medaglie d'oro alle Olimpiadi, comincia ad Anversa nel 1920 e finisce a Amsterdam nel 1928. Sarà l'ultima, perché poi lo squalificano una settimana prima dei Giochi di Los Angeles. La sua colpa: essersi fatto rimborsare i soldi di una trasferta. Tredici giudici contro, dodici a favore: Paavo Nurmi, uno dei più grandi atleti di tutti i tempi, perde il futuro per un voto. Professionismo, parola biforcuta. Ipocrisia al quadrato se associata alle Olimpiadi. La convinzione che i Giochi antichi fossero finiti perché invogliavano alla truffa spinse Pierre de Coubertin a escludere da quelli dell'era moderna chi guadagnava soldi facendo sport, tranne i maestri di scherma. Battaglia di posizione, durata fino a Seoul 1988, tendente a salvaguardare il carattere aristocratico dell'agonismo. Lo spirito è quello della bella gara, non della vittoria a ogni costo. Ottimo principio. Soprattutto per chi non aveva bisogno di lavorare, e per lasciare che una casta di nobili vincesse competizioni alle quali non tutti potevano partecipare. Come Henry Pearce, il vogatore australiano che proprio nel '28 ad Amsterdam, in una batteria della sua prova si ferma per lasciar passare una famigliola di anatre che attraversa il campo di gara. Poteva permetterselo: di professione faceva il ricco. E vinse lo stesso.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI