venerdì 6 dicembre 2002
Il coro stava completando la prova generale con l'orchestra. C'era, però, tra le quinte un po' di confusione perché una squadra di operai stava dando il tocco finale alla scenografia. Uno di loro cominciò a martellare fino al punto che il direttore d'orchestra cercò di attirare la sua attenzione perché la finisse. L'operaio se ne accorse e, con semplicità, gli disse: «Ma s'immagini! Continui pure con le prove: non mi disturba affatto!». Alle soglie della prima della Scala con l'Ifigenia in Aulide (1774) di Gluck i giornali dedicano e dedicheranno all'appuntamento pagine di critica musicale e di costume all'evento che quest'anno si celebra "fuori sede", come ormai tutti sanno.
Leggendo una rivista americana, costellata qua e là
da motti e apologhi, m'imbatto in questa piccola parabola che sembra uno sberleffo. In realtà, essa permette di proporre una riflessione un po' variegata. C'è, infatti, una reazione spontanea, leggendo queste righe. Quell'operaio incarna la superficialità contemporanea che non conosce alcuna scala di valori, che non distingue tra rumore e suono, che fa prevalere l'utile sul bello, che privilegia lo sguaiato rispetto al silenzio, che ignora l'ascolto e così via. A costoro è difficile spiegare perché il colpo di martello debba lasciare il passo alla finezza dell'interiorità, della bellezza, dell'armonia. Tuttavia vogliamo concedere a quell'operaio simbolico una sua ragione. Tutti gli atti, anche i più semplici, hanno una loro dignità e un loro fine e perciò meritano rispetto. Pure il musicista ha bisogno di vari operai per vivere e comporre.
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