domenica 15 settembre 2019
C'era una volta la vergogna. Parolaccia o parolina che sia, era una sorta di melma viscida e, se ci finivamo dentro, tutto avremmo fatto per sottrarci a sguardi e giudizi. Era il profondo senso di umiliazione che ci travolgeva quando... Già, quando? Lo psicoanalista Joseph Burgo, nel suo saggio dell'anno scorso, Shame, individua quattro tipi di vergogna. La prima può avere origine ben prima dei nostri ricordi, da piccolissimi, e può prolungarsi ogni volta che il nostro amore non viene corrisposto. Può capitare al neonato ignorato dalla madre, per infiniti motivi; all'adolescente respinto e perfino deriso dalla ragazzina e dalle sue amiche; a chiunque vede naufragare la sua passione.
La seconda è causata da un'esposizione non voluta, come quando – bambini o adulti – siamo costretti a esibirci in pubblico avendo la netta sensazione di essere goffi e inadeguati e di provocare insopportabili risa di scherno; ma anche quando riceviamo un richiamo pubblico, con il professore che sbandiera in classe il compito pieno di segni rossi o ci deride per una risposta sbagliata; o ancora quando viene divulgato un nostro segreto.
La terza è quando veniamo meno alle aspettative riposte in noi dai genitori, che a volte sottolineano la cosa davanti a tutti: forse pensano di suscitare una sana reazione di orgoglio e invece provocano solo un'umiliazione da cui sarà difficile risollevarsi; oppure il capoufficio esprime il suo disappunto, il coniuge la sua delusione, e così via.
La quarta vergogna è l'esito di un'esclusione, come quando tutti in classe sono invitati alla festina tranne noi, l'allenatore sceglie i giocatori e ci lascia fuori, il capo promuove tutti tranne noi, e così via.
C'era una volta la vergogna che poteva avere effetti paralizzanti e costringeva a lunghi percorsi interiori per ritrovare serenità e sicurezza. C'è ancora, a dire il vero. Ma da tempo sembra avanzare e prevalere il suo opposto, l'assoluta mancanza di vergogna, a cominciare dall'ostentazione dell'ignoranza. Se in un telequiz i tre concorrenti collocano l'ascesa di Hitler al cancellierato nel 1948, 1964 e 1979; oppure se un concorrente indica il versante italiano del Monte Bianco in Sardegna, trascurando la Valle d'Aosta; ebbene, chi si vergogna? L'unico imbarazzato è il conduttore che evita di gridare "capra, sei una capra, se ne vada!", come sarebbe giusto, forse perché quei concorrenti sono stati accuratamente scelti attraverso un severo casting.
Indignazione? Sghignazzi? Poco o niente. La vergogna è un lusso. L'esposizione esasperata è cercata da persone che esibiscono sé e i propri sentimenti più intimi, dandoli in pasto al pubblico e riducendoli a merce. Non hanno vergogna alcuna i concorrenti del Grande Fratello, sotto gli occhi di tutti per 24 ore al giorno. Già molti anni fa la definivamo "pornografia dei sentimenti", quelli di troppi salotti televisivi gonfi di lacrime e senza pudore.
Ma non hanno vergogna i politici che fanno promesse roboanti, non le mantengono e quando vien loro fatto notare sbraitano offesi, anziché chiedere scusa vergognosamente, la coda tra le gambe. E a scuola il ragazzino non si vergogna per il brutto voto – non ha studiato, è ignorante – ma anziché vergognarsi manda i genitori a ringhiare dall'insegnante. Pensieri di cui vergognarsi, violenti o razzisti, sono esibiti con protervia. Così accade che chi non dovrebbe vergognarsi si vergogna, e chi dovrebbe invece sghignazza. L'incoerenza è promossa a virtù e non ci si vergogna neanche più a odiare, apertamente, chiunque ci sia di intralcio. Speranza di salvezza? Sì, se proviamo noi vergogna per gli svergognati. E, miti ma fermi, resistiamo.
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