Nello «Stabat Mater» di Rossini la scena è il teatro dell'anima
domenica 17 agosto 2008
Si dice che Gioachino Rossini (1792-1868) abbia pianto dalla commozione ascoltando per la prima volta lo Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi, toccato nel profondo dell'animo dalla sua disarmante bellezza. Il compositore pesarese dovette senza dubbio richiamare alla memoria quel capolavoro assoluto quando, intorno al 1831, venne invitato a musicare il testo della sequenza attribuita a Jacopone da Todi che descrive la sofferenza della Vergine ai piedi della croce «dum pendebat Filius»; l'esito finale risultò comunque assolutamente personale e Rossini fece sfoggio di un linguaggio originale, vibrante, realistico e altamente scenografico.
È proprio questo il taglio interpretativo scelto da Marcus Creed per dare vita a una lettura di grande spessore, che lascia scorrere in libertà l'inarrestabile flusso melodico della composizione, per ricondurlo però sempre all'interno di un alveo di solenne spiritualità (cd pubblicato da Harmonia Mundi e distribuito da Ducale); e lo straziante dolore della Madonna di fronte al Cristo morto pare trasferirsi sulla scena di un vero e proprio teatro dell'anima, luogo di stupore e di mistero, in una dimensione sacrale incessantemente ricercata attraverso la cura meticolosa con cui vengono cesellati il ricco ordito orchestrale e gli intrecci delle trame vocali.
Accompagnato dalla compagine orchestrale dell'Akademie für Alte Musik Berlin, dallo strepitoso Rias-Kammerchor e da un solido cast di cantanti solisti (il soprano Krassimira Stoyanova, il mezzosoprano Petra Lang, il tenore Bruce Flower e il basso Daniel Borowski), Creed nulla tralascia delle molteplici sfumature evocate dallo Stabat Mater rossiniano, enfatizzando il continuo contrasto tra sentimenti e stati d'animo; nel piglio eroico e belcantistico dell'aria tenorile «Cujus animam gementem», nell'afflato drammatico del duetto femminile «Qui est homo, qui non fleret», nel realismo plastico del quartetto centrale «Sancta Mater, istud agas», nello struggimento interiorizzato della cavatina del mezzosoprano «Fac ut portem Christi mortem», nel tormento quasi sussurrato dal solo coro «Quando corpus morietur» che sfocia poi nel tripudio orchestrale del trepidante e liberatorio episodio fugato finale «In sempiterna saecula. Amen».
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