mercoledì 15 aprile 2009
Non è il più bello fra i bellissimi romanzi di Irène Némirovsky, ma è pur sempre un gran bel libro I doni della vita che Adelphi ci offre nella traduzione di Laura Frausin Guarino (pagine 224, euro 18). Scritto in parallelo al capolavoro ahimè postumo, Suite francese, il romanzo uscì a puntate fra l'aprile e il giugno 1941 su Gringoire, quando già Irène non poteva più firmare con il proprio nome ebraico, e fu raccolto in volume nel 1947, quando la scrittrice, nata a Kiev nel 1903, era morta ormai da cinque anni nel lager di Auschwitz.
Il risvolto di copertina considera I doni della vita «una sorta di prova generale di Suite francese» (perenne sarà la mia gratitudine verso Alessandro Spina che mi ha fatto scoprire la vertiginosa Némirovsky), e in effetti il romanzo ha qualcosa di incompiuto, come se fosse la sinopia di un grande affresco che la scrittrice non ha potuto completare (e stringe il cuore saperne il perché).
L'arco temporale in cui si svolge la vicenda - dal 1910 agli anni '40 in piena guerra - è troppo vasto per sole 224 pagine: ci sarebbe materia per almeno tre volumi, e noi avremmo seguito estasiati la scrittrice insuperabile nei dettagli espressivi, nelle pieghe psicologiche dei personaggi, mentre qui la narrazione deve procedere per squarci, per bagliori, per salti quinquennali. E il meglio è sempre nei particolari, nei tagli di prospettiva interiore che differenziano la letteratura dalla scrittura di routine.
Siamo a Saint-Elme, un piccolo paese nel Nord della Francia, feudo degli Hardelot, industriali cartari tiranneggiati dal vecchio Julien. L'atmosfera chiusa e conformista della provincia profonda è soffocante, ma la gente partecipa con naturalezza ai riti di una società gerarchizzata, egoista e sospettosa. Pierre, nipote di Julien, fa quello che suo padre, Charles, non avrebbe mai osato: manda a monte il fidanzamento con la ricca e burrosa Simone, della potente dinastia dei Renaudin, e sceglie di sposare Agnès, suggellando un ricambiato amore d'infanzia. Il nonno estromette Pierre dalla ditta e dall'eredità, e i due sposi si trasferiscono a Parigi e poi all'estero (Pierre è ingegnere). Nascono due figli, Guy e Colette. Pierre tornerà prostrato ma indomito dalla guerra e sarà riammesso nella ditta di famiglia, poco prima della morte del nonno. La fabbrica, che conosce le difficoltà del dopoguerra, è finanziariamente in mano a Simone, l'ex fidanzata respinta, che ha sposato un avventuriero, da cui ha avuto la figlia Rose. Non stiamo a percorrere i labirinti dell'intreccio, non privo di colpi di scena, verso un lieto fine sobrio e inaspettato, con qualche patetica concessione al feuilleton. Il romanzo si innesta su valori e disvalori di una società tradizionale, osservante, di ristretti orizzonti, eppure positiva, in cui anche certi matrimoni combinati, come quello fra Charles e Marthe, funzionano per abnegazione, per una fedeltà che, se non passione, è pur sempre amore. E a vincere sarà sempre l'amore coniugale, l'amore di Pierre e Agnès, come, nella generazione successiva, l'amore di Guy e Rose. Nonostante tutto, sono gli affetti familiari, il perdurare nei figli, l'attaccamento al luogo in cui si è nati, «i doni della vita».
L'espressione che dà il titolo al romanzo compare due volte. A p. 38 è Charles Hardelot a pronunciarla, nel consolare la moglie per il colpo di testa (di cuore) del figlio Pierre che ha scelto Agnès anziché la facoltosa Simone: «Per la felicità dei ragazzi, mi affido alla Provvidenza, ma so bene che cosa, nella sua divina saggezza, la Provvidenza intende per felicità. Tante responsabilità, tante angosce, tante prove: insomma, i doni che la vita ci offre, cara Marthe...». C'è un retrogusto ironico, nella frase, ma l'inno alla vita è pieno proprio nell'ultima pagina, quando Agnès, dopo tante peripezie, si ricongiunge al suo Pierre che nel frattempo è diventato l'autorità morale nel paese distrutto: «Agnès non avvertiva più né dolore né fatica. Si sentiva come al termine di una mietitura, di una vendemmia: tutta la ricchezza, l'amore, il riso e il pianto che Dio le riservava lei li aveva raccolti e adesso che tutto era finito, non poteva far altro che mangiare il pane che aveva impastato, bere il vino che aveva pigiato; i doni della vita lei li aveva riposti nel granaio, e tutto l'amaro e il dolce della terra avevano dato i loro frutti. Lei e Pierre avrebbero concluso la loro vita insieme».
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