venerdì 5 dicembre 2008
Ho raramente registrato - vivendo calcio da molti, forse troppi anni - storie da "Libro Cuore". Sapete di cosa parlo: nostalgie, strette al cuore, profili umani delicati anche di persone grossolane. C'è stata una stagione in cui coniugavo «tecnica & sentimento», ma pian piano questo è diventato soprattutto emozione televisiva. E so bene quanto il video falsifichi la realtà, quanto sia inutile farsi portavoce di una fantasia. Però m'è capitato, l'altra sera, di immaginare un approfondimento sentimentale proprio buttando l'occhio al televisore dopo aver consumato una partita non so se più fredda o noiosa, Milan-Lazio. Bastava chiuderla lì, con un risultato energetico per i biancocelesti, crudele per
i rossoneri nonostante fosse Coppitalia.
Poi le telecamere hanno inquadrato il faccione di Carlo Ancelotti. Penso che l'abbiate in mente tutti: di solito è un bel quadro di gote rosse, un sopracciglio arcuato, con pochi tratti lo realizzi e altrettanto sintetico è il tocco di matita per farlo ridente, incavolato o triste. Ebbene: l'altra sera l'ho visto, quel faccione, vecchio, rugoso, espressione d'amarezza e stanchezza. Mi scuso con Carlo, perché magari era intirizzito dal sottozero di San Siro e seccato di dover comunque esibirsi nel cerimoniale televisivo post partita. Io invece il tecnico solitamente ottimista e rallegrato dal buonsenso l'ho visto improvvisamente così diverso da quello, addirittura desideroso di fuggire, di dargliela su alla più fastidiosa e innaturale (per le sue corde) sperimentazione milanista.
Vicenda che dura dall'estate, da quando Ancelotti rispondeva «sì a Ronaldinho», e si capiva che non sentiva proprio la mancanza; e «sì a Sheva» con quel mezzo sorriso che palesava incredulità e speranza in parole buttate lì per compiacere i cronisti. E siccome spesso si sottolinea del sor Carletto il suo atteggiamento sornione da contadino emiliano, restando nel modello - forse esagerato - sembrava che intuisse il venir di una stagione grama, con poco raccolto.
È esagerato trarre certe conclusioni da una sconfitta di Coppitalia incassata da un Milan abboracciato e ridotto in dieci? Ma non è questa l'origine di certi pensieri, né la sconfitta di Palermo, bensì un andamento lento sottolineato da Ancelotti con improvvisato entusiasmo nelle vittorie e esagerato filosofeggiare nelle sconfitte. E credo che quella battuta «vorrei allenare la Costa d'Avorio» sia soprattutto un annuncio di fuga. Ho spesso avvicinato Carlo Ancelotti - per competenza e umanità - non tanto al disincantato Liedholm, come spesso si fa, quanto al burbero e furbo Nereo Rocco, che ormai pochi ricordano. E mi riferisco al penultimo e ultimissimo atto del Paron rossonero, quand'ormai la sua storia col Milan era finita e viveva di puri soprassalti sentimentali. Quelli sì da "Libro Cuore".
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