mercoledì 25 luglio 2012
Marcello Magni è un sessantenne attore di successo, in teatro e al cinema. Al ritorno da Londra, con una fastidiosa laringite, riceve dal suo agente (un Alberto abbastanza sensato, pare) una notizia disastrosa: sta per essere raggiunto dal figlio che ha avuto undici anni prima da un rapporto assolutamente occasionale con una giovane maschera del teatro di Bari, Anna Bazzi. Il figlio l'aveva riconosciuto ma non aveva mai voluto vederlo anche se puntualmente e generosamente aveva pagato gli alimenti. Anna è morta poche settimane addietro in un incendio di stampo mafioso, il ragazzino non ha nessuno che lo possa accudire e quindi è meglio che se ne occupi lui, anche per prevenire il gossip dei giornali scandalistici.Comincia così il romanzo di Franco Perrelli, professore di Discipline dello Spettacolo all'Università di Torino, Il padre e il figlio (Edizioni di Pagina, Bari 2012, pagine 176, euro 16), un intensissimo romanzo. Nel corso di una settimana, Marcello, a contatto con quel ragazzino inaspettatamente elegante, misterioso e bellissimo, educato, discreto, intelligente, ricapitola tutta la sua vita che, nel brillante involucro del successo, è in realtà una collezione di fallimenti. Figli ne aveva avuti altri, da donne diverse: uno era morto da piccolo, e Stefano, con cui è in contatto, è un trentaquattrenne attore di telenovelas di serie B, superficiale come, del resto, è lui stesso. Già, perché Marcello è un attore famoso, ma lui sa di non avere quel fuoco che ha visto ardere nel suo maestro Pidulski che, recitando la piccola parte dello Spettro, padre di Amleto, surclassava lui, Marcello, che era Amleto. Lo stesso fuoco che bruciava in Schneider, scenografo poco valorizzato e mezzo alcolizzato, ma che con un geniale gioco di luci sapeva trasportare il teatro in un'altra dimensione. Il fuoco, ancora, che aveva visto a Reykjavik, in una strana compagnia di attori che da trent'anni recitavano un loro Alkestis, ogni sera con gradazioni diverse (quella recita in Islanda richiama lo snodo analogo di Hotel Borg, il romanzo-capolavoro di Nicola Lecca).Ogni attore, aveva confidato Pidulski al giovane Marcello, ha due spine: la spina nella carne, comune a tutti, di cui parla san Paolo, e una spina che è propria dell'attore, una debolezza permanente, un vuoto da colmare, l'espressione da risolvere. Bisogna scavare in quel vuoto perché si manifesti la potenza di Dio, di cui l'opera dell'artista è un riflesso.“Pecca fortiter”, furono le ultime parole di Pidulski, che Marcello interpretò così, senza aver trovato la forza di viverle: “Precipitati nel mestiere, tocca il fondo della crisi e della routine e vedi che succede, prova a risalire da lì”. Il romanzo ha anche un intreccio di azione, quando vengono in chiaro le vicissitudini di Anna, oltraggiata e sfruttata eppure innocente dentro; e c'è il rapporto dapprima conflittuale e poi tenero tra quel padre e quel figlio che alla fine preferirà stabilirsi a Bari, da quella Rosa, povera madre di otto figli, che l'aveva accolto alla morte di Anna. Ma l'originalità sta nella “filosofia” teatrale che innerva il romanzo, accanto agli ingegnosi espedienti narrativi: la lunga lettera di Marcello a Sara, una collega con cui forse avrebbe potuto costruire una vita diversa; l'apparizione mentale di Anna, nel padre e nel figlio. C'è anche un'apparizione di Ezra Pound.Il ragazzo, congedandosi dal padre che ormai ha poco da vivere, perché quella “laringite” nel frattempo è stata diagnosticata in cancro, diventa quasi un angelo quando completa la frase segreta di Pidulski: “Pecca fortiter, sed crede fortius”, pecca fortemente, ma credi ancora di più. Un romanzo insolito, riflessivo e riflettente.
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