domenica 26 aprile 2020
Il senso dei romitaggi, così come ci è narrato dai primi padri della Chiesa, implicava una fortissima presa d'atto della propria spiritualità in opposizione alla vita così detta “civile” in attesa messianica di un mondo nuovo. Una contrapposizione netta che, alcuni secoli dopo, sant'Agostino teorizzò mediandola nel suo celeberrimo “La città di Dio”. La condizione dell'eremita, ben presto sopraffatta, in Occidente, da quella conventuale, sopravvive comunque. Da noi integrata spesso in istituzioni monastiche, mentre in Oriente, nei mille rigagnoli dell'induismo, a cui l'ecumenismo cristiano è sempre più attento, sta subendo una sorta di accelerazione che ribadisce il valore di un rapporto diretto con la Creazione e ciò che le dà senso, lo Spirito Santo che la permea attraverso chi la esperisce nella sua integrità. Il messaggio di san Francesco si riferisce massimamente a questo, ma la “scollatura” dalla comunità non viene portata fino in fondo: piuttosto viene “ribaltata” nel porsi volontariamente all'ultimo livello della società mondana, “ultimi tra gli ultimi”, come sintetizzano meravigliosamente i “Fioretti” ma anche la canonica “Leggenda Maior” di san Bonaventura, e al servizio di tutti. E sant'Ignazio di Loyola parlava di vivere “Perinde ac cadaver” pur nell'agone del secolo. Nel nome del Signore. Non del successo. Non del denaro.
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