mercoledì 19 giugno 2019
Un insegnante di scuola media, scapolo, benestante, con radici ebraiche di parte materna, che cosa può fare se una sera si trova sul portone la sua bellissima allieva sedicenne marocchina, Saia, con la sua sedicente mamma, Shula (che mamma anagraficamente non può essere, infatti è sorella) entrambe in lacrime, scacciate per le avances del padrone dal bar in cui lavoravano? Non può che invitarle a trascorrere la notte in casa sua. La casa è grande, con tripli ingressi indipendenti, piena di cimeli e paccottiglie dei genitori, del nonno bon vivant. Le ragazze si sistemano in due stanzette con un loro bagno e incomincia un ménage singolare e casto. È il nuovo romanzo di Franco Palmieri, Una solitudine borghese (L'erudita. Pagine 292, Euro 26,00). Pian piano, educatamente, le ragazze prendono possesso, consigliano di subaffittare una parte dell'appartamento (e sarà un disastro, perché un cinese ne farà una specie di bordello, fortunatamente di breve durata) si danno da fare: «Shula e Saia vanno e vengono, puliscono, lucidano, lavano e stirano, apparecchiano pranzetti, mi hanno convinto a comperare una lavabiancheria moderna, certe volte mi pare di essere ospite in casa mia, ma vederle volteggiare con tanta padronanza mi solleva un sacco di perplessità». Sotto, c'è la tragedia. Saia è stata abusata, infibulata, costretta ad abortire. Nessuno può dimenticare, eppure si può vivere ancora con levità, come la nuvola di veli azzurri, rosa e verdi in cui le marocchine si avvolgono, suprema bellezza. Non è l'incontro di due mondi, Islam e Occidente, ma la costatazione di una irriducibile distanza, pur affettuosa e solidale. Palmieri non fa discorsi saggistici e neppure pretende di risolvere il problema in un caso concreto: segnala, suggerisce, lascia intuire. Per esempio, Shula dice: «Donna in Arabia è anche 'ird, donna e onore in una sola parola, 'ird». Quanto alla condizione femminile, «se padrone mette sacco su cammello, non è cammello che ha detto metti sacco». C'è un ulteriore mistero, quello della ragazza nella conciergerie dell'alberghetto di Veulette, dove il professore trascorre le vacanze, sulle orme del nonno. A volte è Giselle, a volte è Nadia, è una moldava costretta alla prostituzione a Rimini e ora accolta nella casa di accoglienza di madame Christine per un vano tentativo di recupero. Finirà male. A lui resterà il dolore di non aver saputo vincere la corazza in cui la giovane si era rinchiusa. Lieto fine, invece, per lui, quando conoscerà Odette, la francese insegnante di inglese che accetterà di trasferirsi a Roma. Shula e Saia andranno a Cordoba, a riannodare fili culturali con gli arabi loro antenati. Un romanzo complesso ma non difficile, con pochi snodi narrativi e intenso scavo psicologico dei personaggi. La frase-chiave è forse questa: «Esiste un oziare attivo che alimenta riflessioni e ripensamenti, come stare in un posto pieno di cose da risistemare». È la situazione del protagonista. In sottofondo, nella grande casa romana, musiche di Schubert, Mozart, Khatchaturian, perché, nell'italiano approssimativo di Shula, «musica è come amore, lo senti dentro anche se non c'è».
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