domenica 10 novembre 2019
Avevo notato una particolare malinconia nel volto e nei gesti di una mia alunna, in prima liceale, che da qualche mese si era trasferita in Italia dalla tormentata Ucraina per studiare e trovare finalmente un po' di serenità. I genitori non l'avevano seguìta, la ragazza (quindici anni appena compiuti) era approdata a Napoli insieme alla nonna, una donna robusta ed ancòra energica la quale però poco capiva delle difficoltà della nipote ad ambientarsi nella nuova città. Alta, slanciata, con i lunghi capelli castani che le incorniciavano il viso e ricadevano sulle spalle, la mia allieva non conosceva che poche parole d'italiano. Poi il suo mutismo è stato rotto da un "miracolo". Fu la mattina in cui, com'ero solito fare, invitai a sedere vicino a lei, per la lettura e rielaborazione degli articoli di giornale, Antonella, la più brava in italiano o almeno la più gentile con la nuova venuta e disponibile ad aiutarla. «Siediti vicino ad Anastasia», dissi. A sentire pronunciare ad alta voce il suo nome ucraìno, la ragazza per la prima volta in tanti giorni si illuminò e sorrise. Svolse la cronaca giornalistica sia pure con sintassi approssimativa e io compresi che il suo mutismo era un problema affettivo. Da allora insisto a chiamarla per nome e non con il difficile cognome, ed lei sorride a me e ai compagni e s'affretta a darci il meglio della sua "preparazione".
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