mercoledì 18 marzo 2009
Di Anka Muhlstein, vincitrice del premio Goncourt per la biografia nel 1996, e per due volte premiata dall'Académie Française (1981 e 1992), viene tempestivamente pubblicato da Bruno Mondadori Napoleone a Mosca, uscito in Francia nel 2007 (traduzione di Nanni Cagnone, pp. 268, euro 26). Un libro avvincente, in cui l'auscultazione dei documenti storici, soprattutto le memorie dei generali napoleonici " ma non si dimentichi che nel 1812 operavano e scrivevano in Russia anche Carl von Clausewitz, Joseph de Maistre e Stendhal ", viene messa in pagina con sorvegliato fervore narrativo. Se in Guerra e pace abbiamo, per così dire, la versione russa della tragica epopea, qui la parola è ai francesi, ma in entrambi i casi con lo scrupolo di obiettività che distingue lo storico (anche quando è romanziere) dal gossiparo. Emerge fin dai primi capitoli l'insensatezza dell'impresa napoleonica in Russia. L'imperatore voleva punire lo zar per aver rotto l'embargo contro l'Inghilterra, essendo quest'ultima il vero obiettivo. Ma prendere una strada così lunga per raggiungere lo scopo era scriteriato, come i più leali dei consiglieri di Napoleone gli avevano fatto notare. Ma l'imperatore non era solito ascoltare i consigli e i consiglieri stessi subivano talmente il suo ascendente che finivano per assecondarlo in tutto. E così l'armata francese si trovò in un Paese sterminato di cui non conosceva neppure le strade (inesistente o inaffidabile la cartografia) di fronte a un esercito che rifuggiva lo scontro. E le rare battaglie (Smolensk, Borodino, Molojaroslavec, Beresina) avvennero con tali e tante perdite da entrambe le parti che, come ebbe amaramente ad affermare il capo di Stato maggiore del principe Eugène de Beauharnais, «un'altra vittoria come questa, e Napoleone non avrà più un'armata». E così l'imperatore si trovò nella capitale russa evacuata dagli abitanti, con l'esercito di Kutuzov sempre altrove, e con lo zar che non rispondeva affatto ai tentativi diplomatici di arrivare a una conclusione. Quanto all'incendio di Mosca, Tolstoj propende per le cause accidentali: l'incuria dei superstiti e dei soldati francesi che accendevano fuochi dappertutto sembrava sufficiente a propagare le fiamme in una città quasi tutta di legno. I documenti raccolti dalla Muhlstein, tuttavia, sono un implacabile atto d'accusa contro il fatuo governatore della capitale, Rostopcin, che aveva dato ordini criminali alla polizia e aveva liberato tutti i carcerati, molti dei quali erano stati arrestati dai francesi con torce e micce nelle mani. La straordinaria, anche se temporanea, capacità di Napoleone di volgere in positivo anche le proprie disfatte, ha alimentato la leggenda dell'esercito francese sconfitto «dal generale Inverno». Certo, la meteorologia ha avuto la sua parte, ma la realtà è che, a Mosca, l'armata francese si dissolse dopo essersi abbandonata al saccheggio. Tolstoj ha scritto: «Come quella scimmia che, infilata la mano nello stretto collo d'una brocca e afferrato il pugno di noci che v'è lì dentro, non apre il pugno per non perdere ciò che ha afferrato e in tal modo si condanna alla morte, così anche i francesi, quando uscirono da Mosca, andarono evidentemente incontro alla propria rovina, per l'ostinazione a portar con sé ciò che avevano rubato». Dei 420.000 uomini che il 23 giugno 1812 avevano iniziato la campagna di Russia passando il Neman, il 13 dicembre riattraversarono in senso inverso lo stesso fiume soltanto in diecimila. L'inesorabile tramonto della stella di Napoleone era cominciato. Anka Muhlstein ne ha raccontato l'ardimento e la follia in pagine implacabilmente eleganti.
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