giovedì 29 giugno 2017
In questi giorni sono letteralmente inciampato in due eventi molto differenti tra loro, distanti per spazio, tempo e contesto culturale, tra i quali ho avvertito un legame profondo. Uno riguarda la strage di Newtown in Connecticut. Nel 2012 uno squilibrato entra in una scuola elementare, la Sandy Hook, e fa una strage di bambini delle prime classi. Quel dramma è diventato un macigno per i genitori delle vittime e per tutta la comunità, compresi i sopravvissuti. L'altro riguarda l'architettura delle Vele di Scampia. Teatro di degrado, per certi versi non meno tragico delle vicende di Newtown. In entrambi i casi è avvenuta una istintiva e perniciosa identificazione del disastro con la struttura. A Newtown la scuola è stata demolita e a Scampia si vuole dare un segno di rinascita riducendo in macerie una architettura controversa ma certamente non responsabile del degrado e per certi versi interessante dal punto di vista formale. Documentazione concreta di un approccio brutale al territorio.
È comprensibile che un luogo diventi il simbolo vivo delle sue storie, in particolare se tragiche. È comprensibile come nella distruzione si tenti l'esorcismo di un problema che, evidentemente, risiede altrove. Comprensibile, umanamente comprensibile. Ma è richiesto un passo ulteriore alla propria maturità umana. Cedere alla suggestione è negarsi il possibile superamento del dolore. Il trasferimento su un oggetto della scaturigine del male e l'illusione di un effetto taumaturgico nella sua distruzione hanno portato nei secoli risultati mostruosi come i processi di Salem.
I due casi hanno valenze diverse. La demolizione della scuola di Newtown nasce da una comunità intrappolata in un incubo di cui non riesce a liberarsi. Abdicazione alla incapacità di accettare che il rischio di vivere non conosce soluzioni alchemiche, ma solo una faticosa opera di coscienza. L'abbattimento delle Vele deriva più dalla volontà di mostrare che si interviene contro la devastazione umana e ambientale, miscelando luoghi comuni e buone intenzioni, con un gesto più appariscente che effettivo. Il sacrificio umano sostituito dal sacrificio edilizio. Ma non si può delegare a un mucchio di mattoni la tragedia che accompagna la nostra vita nel tentativo vano di svegliarci in un mondo dove la ruspa ha fatto un lavoro che è solo nostro.
Il male, o come lo si voglia definire, la tensione distruttiva dell'uomo, è una categoria che non risiede nei materiali o nelle strutture. Il male è fatto di un'altra concretezza. Illudersi che lo si combatta attraverso interventi simili a spilloni voodoo in chiave urbanistica, mostra come, in tutta la nostra pretesa evoluzione, non ci siamo distaccati dal feticismo dell'uomo primitivo, che vedeva il fulmine e faceva sacrifici per ingraziarsi il dio che quel fulmine aveva scagliato.
La cosa peggiore è lo spostamento dell'obiettivo che impedisce di andare al fulcro del problema. Nel caso di Newtown capisco che la vista di quel luogo potesse generare strazio, ma non vi è alcuna vera relazione di causa effetto tra l'edificio, la tragedia e il dolore che porta. Identificare il male con un mucchio di ferri e pietre è cedere alla tentazione di non maturare. Ricerca di panacee inestistenti che placano la coscienza come anestetici rispetto al mistero che non possiamo eliminare e tanto meno controllare: la presenza della distruzione nel mondo. Nel caso delle Vele il luogo è certamente compromesso ma la idea di una liberazione da Gomorra attraverso la demolizione del luogo è fallace. Senza le Vele Gomorra troverà un altro luogo.
Il male di Newtown, la camorra, sono luoghi fisici ma non topografici. Il tema è sempre il simbolo. Si dice che è un simbolo abbattere questi edifici. Idea di simbolo che è una spirale morta. Il simbolo vero sarebbe riuscire a capovolgere il destino che quegli edifici ha colpito. Il metodo va cambiato. Non tentare il riscatto dell'uomo attraverso il luogo ma del luogo attraverso l'uomo.
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