mercoledì 25 gennaio 2012
Sarà una piacevole scoperta per gli amanti della poesia questo Stanco di vedere di Luis García Montero che Medusa offre al pubblico italiano (pp. 224, euro 19). Lasciamo perdere i discorsi sulla scarsità di pubblico della poesia e, ancor più, della poesia straniera: non sa quanto perde chi non ne legge, e peggio per lui. García Montero è un poeta di Granada, dove è nato nel 1958 e nella cui Università insegna letteratura spagnola. È marito della scrittrice Almudena Grandes (i gusti son gusti). È il principale esponente della “Poesia dell'esperienza” che, come spiega Gabriele Morelli, nell'esauriente postfazione, «propone un'esperienza sentimentale contaminata dagli oggetti e dalle relazioni umane, e la cui importanza si riverbera sul soggetto che la trasforma in parola poetica». In parole più povere: una lirica autobiografica che si impasta nei luoghi della memoria e vive un presente carico di risonanze solitarie. In polemica con la neoavanguardia non solo spagnola, García Montero recupera la tradizione che in Machado, Lorca e Cernuda ha esponenti di eccellenza, e restituisce una poesia di classicità novecentesca non come operazione archeologica, ma con lo stupore di una ritrovata verità nella quale il tempo è una variabile secondaria. E, soprattutto, il poeta è perfettamente a proprio agio nel cromatismo della lingua spagnola, con le sue immagini e le sue metafore che a volte rasentano il cortocircuito, scaturendo dallo scontro di termini sempre in bilico sull'ossimoro, e anche con quel tanto di buffo e di retorico che qualifica la lingua che da Cervantes arriva a noi. García Montero è radicatissimo nella sua Granada, di cui è innamorato, e scrive poesie di casa e di città, di paesaggi condivisi con gli amici, e di serate solitarie in strade deserte, con il rumore del vento e uno sciabordio di onde conservati nella conchiglia della memoria: «Se busca una ciudad. La recompensa, / aprender a vivir con uno mismo, / saludar la luna en horas de trabajo, / mover recuerdos en un cajón vacío: Si cerca una città. La ricompensa, / imparare a viver con sé stessi, / salutare la luna durante le ore di lavoro, / spostare i ricordi in un cassetto vuoto». C'è anche una bella sensibilità sociale, ma da cittadino, non da ideologo fanatizzato. La traduzione di Annelisa Addolorato svaria da punte di genialità, a cominciare dal titolo della raccolta, Vista cansada (Vista stanca) reso con Stanco di vedere, a imprecisioni e diluizioni prosastiche. Per esempio, nel brano soprascritto, «salutare la luna durante le ore di lavoro» poteva essere reso meglio con «salutare la luna in orario di lavoro»; per la traduttrice «ascuas» (braci) sono sempre «ceneri», spegnendo così il calore e il fulgore del poeta; «escombros» (macerie) viene tradotto con «rifiuti» anche quando il contesto bellico poteva suggerire il senso esatto («Buscaba en los escombros de una guerra / aquello che no puede vivir en los escombros: Cercavo tra le macerie [non tra i rifiuti] di una guerra / ciò che non può vivere tra le macerie [idem]»). La traduttrice sembra inoltre trascurare l'uso dell'iperbato (trasposizione dell'ordine delle parole nella frase) che differenzia la poesia dalla prosa, e non mancano effetti banalizzanti: per esempio, nella poesia dedicata alla madre, «La luz adolescente / che baja del tranvía / con bolsas y comercios y saludos / y poco más de veinte años» viene tradotto con «la fiamma adolescente / che scende dal tram / con borse, traffici e saluti / e a poco più di vent'anni», e così l'ultimo verso, per quell'“a” in più, è ridotto a una notazione anagrafica, mentre era bellissima l'immagine della madre che scende dal tram con i suoi vent'anni insieme a pacchetti e pacchettini. Insomma, la traduzione letterale è sempre vincente sull'interpretazione, e comunque Stanco di vedere resta un bellissimo libro, apprezzabile soprattutto da chi ha qualche dimestichezza con la lingua spagnola.
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