domenica 10 novembre 2019
Vi piacerebbe essere come John Coffey? Capaci di alleviare la sofferenza altrui semplicemente "succhiandola" fuori dal loro corpo? Ha un dono, il buon Coffey; che è anche una maledizione. Accusato ingiustamente di aver stuprato e ucciso due bambine, attende il suo destino nel braccio della morte. Presto dovrà percorrere "il miglio verde", il tratto di corridoio che conduce dalla cella alla sedia elettrica. Il miglio verde, prima romanzo di Stephen King (1996), poi film scritto e diretto da Frank Darabont (1999) e interpretato dal gigantesco Michael Clarke Duncan (il detenuto John Coffey) e Tom Hanks (la guardia Paul Edgecombe), è dramma carcerario sulla crudeltà della pena capitale, sul sadismo di alcuni esseri umani e sull'infinita bontà di altri. Tra questi Coffey, agnello sacrificale che attende il suo destino senza covare risentimento, rabbia o disperazione. E porta sulle spalle il suo "dono".
Quando si parla di eutanasia, suicidio assistito, diritto alla morte e cose simili, il pericolo è di trascurare il nocciolo della questione, di guardare l'effetto ignorando la causa: la sofferenza, il dolore. Perché una persona dovrebbe desiderare di morire, desiderarlo allo spasimo, desiderarlo come nient'altro ha desiderato mai, se non per eliminare un dolore insopportabile? Chi cerca il suicidio non vuole morire, ma vuole fermare il dolore, di qualunque natura esso sia; ma se morire appare come l'unico modo per fermarlo allora sì, giunge a desiderare di morire. Il dibattito pubblico, dunque, dovrebbe essere centrato esclusivamente, o quasi, sui modi per fermare il dolore e alleviare la sofferenza, anziché sui sistemi più pratici per morire. In tempi non sospetti André Malraux annotava: «La morte non è una cosa così grave, il dolore sì».
Contrariamente a quanti alcuni (molti?) ancora pensano, non siamo nati per soffrire. Ma di fronte alla sofferenza fatichiamo a mantenere un atteggiamento logico e positivo. Spesso ci dimostriamo maldestri. Ad esempio, nulla è più sciocco che dimostrare a chi soffre che la sua non è una sofferenza così grave e c'è chi soffre molto di più, per cui la smetta di soffrire, o almeno di lamentarsi. Non è una cosa di oggi. Quattro secoli fa William Shakespeare osservava amaramente: «Tutti gli uomini sanno dare consigli e conforto al dolore che non provano». Meglio dunque tacere, stare accanto a chi soffre alle sue condizioni, fargli compagnia con delicatezza. Ascoltare il suo dolore. Pregare, se sappiamo farlo. Accarezzarlo, e questo dovremmo saperlo fare tutti. Stringere la mano di chi soffre e non lasciarla fino all'ultimo istante.
La sofferenza può renderci migliori? Sì, se prima non ci distrugge. Questo forse è uno degli insegnamenti del Miglio verde. John Coffey, per alleviare la sofferenza altrui, deve assorbirla e farsene carico. Alla fine confida all'agente Edgecombe: «Sono stanco, capo. Stanco di andare sempre in giro solo come un passero nella pioggia. Sono stanco soprattutto del male che gli uomini fanno a tutti gli altri uomini. Stanco di tutto il dolore che io sento, ascolto nel mondo ogni giorno, ce n'è troppo per me. È come avere pezzi di vetro conficcati in testa sempre continuamente. Lo capisci questo?».
L'avrebbe ben capito una poetessa dall'acutissima sensibilità come Emily Dickinson: «A un cuore in pezzi / nessuno si avvicini / senza l'alto privilegio / di avere sofferto altrettanto». Lo capisce chi cerca cure palliative sempre più efficaci. Chi ha imparato a fare compagnia ai sofferenti. E chi sa misurare le parole avendo compreso che la sofferenza è in gran parte mistero, e ai misteri ci si accosta solo nel silenzio.
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