venerdì 28 gennaio 2011
Dicono (diciamo) che nella vita si può cambiare tutto, idee, rapporti sentimentali, partito, ma non la Squadra del Cuore che è (dovrebbe essere) un amore eterno. L'affermazione non è poi così gratificante: vuol dire - insomma - che almeno nelle passioni futili dovremmo essere coerenti e che ormai non esiste altro matrimonio indissolubile se non quello con a Squadra. I tradimenti d'ogni giorno, d'ogni ora, anche infami, cialtroneschi, sono tollerati, quelli calcistici ricordati sempre con disprezzo, anche se a volte mirano a inquadrare personaggi - non faccio nomi - la cui alterna passione è determinata dall'interesse. Nel mondo del calcio, ai giornalisti sportivi dovrebbe essere vietato fare coming out, dichiarare la propria passione, pena la considerazione di faziosità; al contrario, ho sempre pensato che è ipocrita far finta di essere al di sopra delle parti quando in cuore si cova un solo amore ed è al tempo stesso coraggioso esporsi al giudizio di un lettore, di un telespettatore che sarà sempre attento a quel che dici e pronto a prenderti in castagna. Mi accorgo - tanto per restare in proverbi che gli esteti della lingua considerano obsoleti - mi accorgo di menare il can per l'aia, perché una confessione è comunque un momento di difficoltà: e io devo confessare che non sono sempre stato tifoso del Bologna, come vado dicendo da cinquant'anni esatti, perché prima, molto prima, quando di mezzo c'erano solo il Cuore e la Favola, sono stato tifoso del Grande Torino. Fino a quando Superga me lo tolse dagli occhi e la prima sponsorizzazione (ricordo un tremendo "Talmone Torino") me lo sradicò dal cuore. Ci vollero oltre dieci anni perché tornassi ad appassionarmi al calcio, magari per mestiere. Poi, proprio nell'anno - il 1964 - in cui il
"mio" Bologna vinceva lo scudetto, il Torino acquistò dal Genoa Gigi Meroni e in breve accusai un ritorno di fiamma: perché Gigi era la realizzazione perfetta - come uomo e come giocatore - del calcio che piaceva a me, fatto di genialità e sregolatezza, di istinto più che di fisicità, di una fantasia non solo fanciullesca ma studiata a lungo, negli allenamenti in palestra, piuttosto che per strada o negli oratori. Poi Gigi morì. Era il 15 ottobre 1967 e la notizia mi colse nella redazione di "Stadio", mi colpì duramente e a sera ebbi anche una forte commozione quando Enzo Tortora salutò per sempre quel giovane coi capelli lunghi e la barba incolta che aveva perduto tragicamente la vita senza averne potuto cogliere almeno una promessa: il calcio, l'arte, l'amore. E così fini' per sempre, con quel rinnovato piangente addio, la mia passione granata. Ho ripensato a Gigi - che ebbi anche la fortuna di conoscere e di intervistare, prototipo di un calciatore ribelle di razza granata, come un inedito Mondonico che conobbi più tardi, tutto Beatles e Rolling Stones - quando ho sentito del rapimento del corpo di Mike Bongiorno dal cimitero di Arona. Si è parlato, per Mike, un altro mito della mia giovinezza, di un tentativo di estorsione, secondo il forte malessere di questi tempi per cui dietro ogni azione inspiegabile c'è un in tento criminale. E allora vi dico che due mesi dopo la morte di Gigi Meroni, quando ormai il Rivoluzionario era diventato un Santino (un'icona, si dice oggi), mi chiamarono a casa, la mattina presto, per dirmi: «Va a Como, di corsa: hanno rapito Gigi Meroni». Il corpo di Gigi Meroni. Così fui davanti alla sua tomba sconsacrata, vuota, e poi nella vicina camera mortuaria, dove erano stati collocati i resti del suo corpo trovati dai carabinieri. Ne mancava una parte e quando seppi che l'oltraggio era stato portato a termine da un inconsolabile - e pazzo - tifoso di Gigi, mi limitai a raccontare che gli avevano rubato il cuore.
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