giovedì 14 dicembre 2017
Equivoci: nessuno è infallibile in pagina. Ieri per esempio leggo ampi resoconti dell'inaugurazione, a Ferrara, del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoà. Sul "Messaggero" (p. 25) Francesca Nunberg, «I primi mille anni degli Ebrei italiani», e su "L'Osservatore" (p. 1 e ampio seguito, «Storia di un antica convivenza» Anna Foa risale, come la Mostra stessa, anche oltre l'era cristiana. Leggi e impari – o almeno ricordi – tante cose del nostro passato comune, non tutte belle, che è sempre bene avere presenti, ma… Ma poi su "Repubblica" (pp. 1 e 36) trovi Paolo Rumiz – «Felice Hanukkah, nasce a Ferrara la casa degli Ebrei» – che partendo dalle «verdure fritte» e dai «carciofi alla giudìa» racconta bene le vicende delle comunità ebraiche in Italia da più di duemila anni. Sì! La presenza ebraica a Roma è più antica di quella cristiana, come dal 1986 in poi ci hanno ricordato anche i Papi in visita al Tempio di Roma. Perché allora quel "ma"? Perché proprio all'inizio leggi che delle «verdure fritte» si occupavano «donne ebree immigrate in Italia». «Immigrate»? Una parola da sempre complessa, oggi più che mai! Ma allora siamo tutti "immigrati", e l'uso della parola, pur spontanea e senza malevoli sottintesi può diventare rischioso. Gli italiani di religione ebraica non sono "immigrati", ma in stragrande maggioranza sono italiani come tutti! Venisse in mente a qualcuno – non certo a "Repubblica" e a Rumiz! – di parlare ancora di "razza" ebraica sarebbe un'offesa alle persone e alla storia. Senza offesa! Meglio chiarire anche i termini, usati pur con le migliori intenzioni. E in questa linea ottima ancora ieri ("Corsera", p. 33) la cura di Aldo Cazzullo nel rispondere ad un lettore: «Non ho mai capito cosa possa esserci di offensivo in una immagine delicata e poetica come quella del presepio».
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