martedì 8 maggio 2018
Il mio primo articolo in prima pagina su "Avvenire" lo devo a Nando Martellini. Due ore di confessioni paterne, da maestro illuminato all'allievo con ancora tante ombre in testa. Era diventato cieco ma i suoi occhi sprizzavano saggezza, quella del diplomatico prestato allo sport, capace di dissertare con la stessa pacata partecipazione emotiva di Italia-Germania 4-3 (l'epica telecronaca della semifinale Mondiale di Messico '70) come de "Il giardino dei ciliegi di Cechov". «Il russo è la mia quinta lingua parlata», disse con l'umiltà sincera che possiedono solo i grandi. Altri grandi lo salutavano da una foto sugli scaffali della libreria. «Lì sono con Sergio Zavoli: inviati al Tour, a Parigi tra una tappa e l'altra andavamo a visitare la casa di Flaubert». Ma raccontare lo sport era stata la sua educazione sentimentale. Alla cecità rimproverava il sogno sfumato di pensionato, «dedicarmi alla lettura di quei libri che non avevo mai potuto leggere quando viaggiavo per il mondo al seguito della Nazionale». Il viaggio più bello però era stato quello in solitaria, nel 1945, in bicicletta. «Ora che passo le giornate ad occhi chiusi a ripensare alla mia vita, di notte rivedo tutte le curve e le colline di quel viaggio... Forse più di tutte le partite che vi ho raccontato, fu veramente quella la mia grande impresa, essere arrivato davanti al mare».
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