mercoledì 24 novembre 2021
Chi scrive: «I cantanti d'opera si dividono in due categorie: la Callas e gli altri», merita una standing ovation e mi autonomino capoclaque. Perché Alberto Mattioli - è di lui che si sta parlando, e del suo Pazzo per l'Opera (Garzanti, pagine 216, euro 16) - scrive "i cantanti", cioè uomini e donne, tanto più che si deve dire "il soprano", non "la soprano", come Mattioli stesso tiene a ribadire. Spiegazione mattioliana: «Perché "la Maria" era più di una cantante, e anche più del personaggio che si trovò a incarnare o che le fu cucito addosso. No, la Callas era di più: era un genio. Magari inconsapevole, ma capace da sola, con l'unica forza della sua genialità, di costruire un'estetica dell'opera così anticipatrice e rivelatrice da diventare poi quella di tutti». Basta e avanza questa pur non breve citazione per dare un'idea dell'attrattiva di questo libro che nasce, sì, da una passione ma non dal sonno della ragione. Mattioli, giornalista del quotidiano "La Stampa", addì 26 ottobre 2020, aveva visto 1.791 opere in teatri di tutto il mondo: insomma, è uno che sa di che cosa parla, e dovendo occuparsi di melodramma non può non confrontarsi con l'idea di "tradizione", che egli interpreta in senso storico e dinamico. Inevitabile, dunque, l'ammirativa polemica con il musicologo Rodolfo Celletti (1917-2004) il quale sosteneva che doveva esserci un solo modo per eseguire "bene" una partitura. Mattioli è più duttile, e apprezza anche opere "aggiornate" da registi sconsiderati, con cantanti in abiti moderni che declamano però i versi antichi e incongrui del "libretto" originale. E così cita una sola volta Emma Dante per il "bellissimo Macbeth" di Macerata, ma non accenna ai disastri combinati dalla sventurata regista come la Carmen scaligera con le sigaraie che escono dalla fabbrica vestite da suora per poi mettersi a civettare: perché? Voleva essere il modo per rappresentare l'oppressione della Chiesa sulle donne, e lo sfruttamento capitalistico delle operaie. Abusivismo intellettuale, sciocchezze, insomma. Per me, il "moderno" convincente è l'opera più bella che finora abbia visto, Il viaggio a Reims di Rossini, con la regia di Luca Ronconi e i costumi di Gae Aulenti, in cui musica, azione scenica, straordinaria compagnia di canto, inserti filmati, facevano tutt'uno. A proposito di tutt'uno. I versi delle opere, a leggerli, fanno ridere. Nel Don Carlo di Verdi, a Elisabetta toccano questi versi: «Addio! Addio verd'anni ancor! / Cedendo al duol crudel, / il cor ha un sol desir: / la pace dell'avel!». Ma sentiteli cantare, soprattutto se a cantare è la Callas, e lo struggimento, la disperazione di Elisabetta vi entrano nell'anima. Melomani o curiosi leggete il libro di Mattioli. Documentato, mai pedante, ricco di aneddoti, brillante nella scrittura, con utile indice delle opere liriche, fa entrare «in quel momento brevissimo ma interminabile che separa la vita dalla sua rappresentazione».
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