martedì 9 ottobre 2018
A quasi due settimane dal varo del Def italiano, tra scambi di insulti e minacce reciproche, resta aperta la sfida lanciata dalla maggioranza giallo-verde alle istituzioni comunitarie e ai nostri principali partners della Ue. Malgrado le smentite verbali di questo o quel singolo leader, l'impressione è che a Palazzo Chigi e dintorni siano tuttora decisi a forzare la mano. Scommettendo sul timore che lasciar affondare il nostro Paese farebbe pagare un prezzo inaccettabile anche agli altri membri dell'Unione. Avanti a testa bassa, dunque, pure a costo di affrontare lo scontro finale con Bruxelles.
Ma proprio pensando al futuro dell'Europa, sono due le chiavi di lettura possibili di questa scelta. La prima si fonda sulla convinzione che far partire procedure d'infrazione e successive condanne dell'Italia, confidando che i mercati finanziari accompagnino l'offensiva a colpi di spread, non convenga a nessuno. Neppure a chi ha le carte in regola con l'ortodossia comunitaria come Berlino. Tanto meno a leader come Macron, che ha annunciato a sua volta uno "strappo" vistoso in materia di spesa in deficit. L'azzardo in tal caso sarebbe calcolato e, in ultima analisi, poggerebbe sulla fiducia che, a parte le critiche e le polemiche, l'Unione saprà reggere al colpo inflitto dagli italiani.
C'è però un altro calcolo, più cinico e pertanto meno confessabile, che può giustificare una mossa tanto audace quanto priva di vie d'uscita in caso di fallimento. Si basa sulla convinzione che ormai il destino della costruzione comunitaria è segnato, che più di quanto ha dato finora, l'Europa non potrà dare, perché il pendolo della storia ha invertito la direzione. D'ora in poi le spinte centrifughe, si presume, diverranno sempre più forti e la logica dei sovranismi – my country first: prima il mio Paese – finirà per imporsi a tutte le latitudini. Tanto vale perciò giocare d'anticipo e conquistare qualche margine di vantaggio nella futura trattativa sullo "sciogliete le righe".
O la va o la spacca, insomma: sarebbe questo lo slogan sotteso all'aperta violazione degli impegni assunti con la Ue dai precedenti governi di Roma. È naturalmente una prospettiva sciagurata e autolesionista, che getta via, con l'acqua sporca dei difetti e certamente anche delle ingiustizie causate dagli eurocrati e dai partners più prepotenti ai nostri danni, pure il bambino di un'appartenenza comunitaria alla quale si devono tanti progressi compiuti dall'Italia in sessant'anni.
Nessuno ormai nega le responsabilità di Bruxelles e di diverse capitali "sorelle" nell'aver favorito fra i cittadini della Penisola un repentino cambiamento di umore verso l'ideale europeo, che per decenni abbiamo coltivato più di chiunque altro. La maggioranza dei nostri connazionali si è scoperta euroscettica – meglio sarebbe dire "euroesausta" – grazie anche a egoismi incomprensibili e irrigidimenti beceri degli altri Paesi. Si potrebbe fare una lunga lista di esempi in materia, ma basta citare il tema dell'immigrazione, che da anni ci vede in primissima linea, per lo più abbandonati a noi stessi, ricevendo molti riconoscimenti morali ma poche manifestazioni concrete di solidarietà. A dirla tutta, Matteo Salvini dovrebbe fare un monumento a Juncker e soci: altro che "me ne frego" e inviti alla sobrietà!
Resta il fatto che giocare con il fuoco rischia di scottare le dita anzitutto a chi si trova già in partenza più vicino alle fiamme. Se davvero il vicepremier leghista intende smantellare quanto resta del sogno europeo dei nostri padri, e se il suo collega grillino spera di veder scomparire non solo «questa Europa» ma qualunque altra possibilità di Unione, avrebbero l'elementare dovere di dirlo a voce alta. Al tempo stesso, dal versante europeo, si deve prendere atto che ripicche e rappresaglie (charter di immigrati compresi) non servono. Rischiano anzi di aizzare ulteriormente il populismo tricolore. Ci manca solo che qualche furbo "patriota" rispolveri le "inique sanzioni" di mussoliniana memoria.
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