giovedì 23 settembre 2021
C'è qualcosa di vecchio in tutti i dibattiti di questi tempi su cura, diritti, libertà, responsabilità. Ci sono parole che suonano opache, eredi di un discorso che sembra "moderno" ma che ha invece una sua precisa archeologia che ne denuncia l'aspetto consumato. Uso la parola archeologia perché buona parte di questi discorsi hanno come padre Michel Foucault e la sua concezione della biopolitica. Il filosofo francese, che aveva ricostruito come pochi la "nascita della clinica" e "la costruzione della idea di normalità" aveva elaborato alla fine del suo pensiero un'analisi del modo con cui ogni società costruisce la sua idea di vita. La bio-politica è la verità che una società costruisce sul senso dell'essere in vita, su ciò che rende la vita degna di essere vissuta, su ciò che invece ne sta fuori. Quell'analisi viene poi ripresa dal nostro Giorgio Agamben col concetto di "nuda vita".
Ora, per quanto entrambi i pensatori facciano un excursus storico dell'idea di vita - nel mondo classico - la loro analisi è altrettanto connotata di una lettura ideologica, cioè è legata a una precisa lettura polemica, a un discorso che nasce "contro". Sono due filosofi militanti, e questo ha senso in una storia del pensiero dialettico, però guai a scambiare queste analisi con una ontologia. Cioè non se ne può dedurre una idea completa di cosa è la vita e cosa è la vita degli umani e degli esseri viventi. Nel loro discorso c'è la volontà precisa di negare che una cosa del genere esista. Quando si parla di vita per loro è sempre in chiave ideologica, la vita è qualcosa di subordinata alla politica. Al di fuori della "polis" non c'è vita, non esiste una natura, un mondo biologico indipendente dalla politica.
Si può essere d'accordo o meno, ma in fin dei conti la loro analisi ricade in una vecchia idea marxiana di sovrastruttura. L'unica verità è quella della economia e della politica, il resto è sovrastruttura. I Foucaultiani, gli agambeniani della domenica, oggi contestano che esista una vita che ha le sue ragioni al di là delle loro convinzioni politiche. Gli stessi che sono disposti a difendere i diritti degli animali non riescono a comprendere che questi presuppongono una idea della priorità della vita sulla politica. Se qualcuno crede che il diritto a decidere sulla propria salute sia un verbo assoluto che travalica le responsabilità collettive nei confronti degli altri della polis e della natura, allora non deve sottomettersi alle leggi umane.
Questa concezione che si autodefinisce libertaria e anarchica nulla a che fare con la storia dell'anarchia. Uno dei suoi principali esponenti, Paul Goodmann, affermava negli anni 70 del Novecento che l'anarchismo è anzitutto amore per un ordine che consenta una convivenza armonica. E non è un caso che il suo riferimento fosse il "mutuo appoggio" di Kropotkin.
Foucault e Agamben sono vecchi pensatori che continuano a ignorare che un'analisi che sottopone la vita alla politica non è diversa da qualunque regime di autorità. O si accetta che la vita, gli esseri viventi, gli animali, le piante, i sistemi viventi abbiano una autonomia che non possiamo mai ridurre ai nostri unici criteri, o la via dell'estinzione è aperta. Che poi i diritti della politica debbano condurre all'estinzione non è qualcosa di nuovo, lo pensavano proprio i maestri della filosofia del Novecento a cui i nostri due si ispirano. Oggi chi si arroga il diritto individuale di mettere a repentaglio la vita altrui, umana o animale che sia, ricade in una logica vecchia che è convinta che la vita venga creata nelle assemblee e nelle manifestazioni e che non esista di per sé.
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