mercoledì 8 maggio 2013
Tracciare una "storia culturale del corpo umano" è la sfida che Hugh Aldersey-Williams ha vinto con Anatomie, denso e piacevole volume pubblicato da Rizzoli (pp. 496, euro 22). Sappiamo tuttora poco del nostro corpo, figuriamoci quel che ne sapevano gli antichi, e per fortuna abbiamo la pelle che ricopre la nostra complessa macchina vivente con tutti i suoi organi interni che mandano in visibilio gli anatomisti, evidentemente insensibili al ribrezzo.Si fa risalire alle Tabulae anatomicae di Andrea Vesalio (1538) la conoscenza moderna del corpo umano basata sulla dissezione dei cadaveri, normalmente di delinquenti condannati all'impiccagione, come appare dalla celeberrima Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt, che in primo piano mostra il cadavere del ventottenne Adriaen Adrianszoon, un noto ladro detto "Het Kindt", giustiziato il 31 gennaio 1632.Già, per gli anatomisti il problema era procurarsi i cadaveri, e qualcuno andava per le spicce. Per esempio, il dottor Robert Knox, autore di un apprezzato manuale, tra il 1827 e il 1828 acquistò almeno sedici cadaveri di persone appositamente assassinate da William Burke e William Hare, due delinquenti poi debitamente condannati. E anche l'Anatomia uteri humani gravidi tabulis illustrata, di William Hunter, tuttora apprezzata, sembra basata «su un numero di cadaveri di donne superiore a quelli che avrebbe potuto procurarsi tramite "furti occasionali"». Come si vede, gli esperimenti di Josef Mengele nei Lager hanno precedenti illustri, in assenza di comitati etici negli ospedali e nelle facoltà di medicina.Il libro di Aldersey-Williams, tradotto con scioltezza da Daniele Didero, non è una galleria di orrori. Dapprima considera il corpo umano nel suo insieme, come un territorio da esplorare; poi esamina partitamente la testa, il volto, il cervello, il cuore, il sangue, l'orecchio, l'occhio, lo stomaco, la mano, il sesso (nessuna volgarità), il piede, la pelle; infine, uno sguardo al futuro non lascia del tutto tranquilli sulle prospettive dei trapianti e dei tentativi di prolungare la durata della vita umana.In una «storia culturale del corpo umano» non potevano mancare gli accenni all'uso linguistico di metafore, sineddochi e catacresi di origine anatomica. Per esempio, una cosa che a un italiano costa un occhio della testa costerà a un inglese «un braccio e una gamba», e a un francese «la pelle della schiena»; un'espressione di buon senso, in italiano «a lume di naso», in francese diventa una «visione del naso», e in inglese una «regola del pollice»; in Spagna, due amici intimi sono come «unghia e carne»; una persona di cattivo umore, in tedesco «ha un pidocchio che gli corre nel fegato». Insomma, il corpo è anche fonte di ispirazione linguistica, e Shakespeare è maestro perfino in questo.Sull'interazione fra corpo e anima il volume non indugia. Riporta però il caso del dottor Gabriel Beaurieux che il 28 giugno 1905 esaminò la testa di Henri Languille, appena caduta dalla ghigliottina. Per cinque o sei secondi le palpebre e le labbra del cadavere furono contratte da spasmi e quando al medico venne in mente di chiamare per nome Languille, vide le palpebre sollevarsi, e gli occhi «si fissarono sui miei e le sue pupille si misero a fuoco». In ogni caso, la separazione dell'anima dal corpo è così instabile e provvisoria, che il dogma della risurrezione della carne sembra rispondere anche a una necessità naturale, perché la persona richiede un corpo attraverso cui l'anima comunica e si esprime.
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