sabato 26 maggio 2018
Al lavoro per creare (buon) lavoro. Potrebbe, forse dovrebbe essere questo il claim del nuovo Governo del premier Conte. Perché nonostante la maggiore insistenza in campagna elettorale su questioni come tasse, previdenza e immigrazione, l'occupazione rimane di gran lunga la prima preoccupazione degli italiani. Ed essendosi presentato come l'avvocato difensore degli italiani, il nuovo capo dell'esecutivo non potrà non tenerne conto. Partendo da una sorpresa: sul tema – contrariamente alle aspettative – il "contratto di Governo" tra M5s e Lega non appare rivoluzionario come in altri campi.
Non sono citate nel documento, quindi non sono considerate prioritarie, questioni come la «cancellazione del Jobs Act» o la «reintroduzione dell'art. 18» dello Statuto dei Lavoratori: ciò vorrebbe dire confermare, dunque, le scelte fondamentali fatte dagli ultimi due Governi a guida Pd. Ed è un bene per la competitività del nostro Paese. È citata, invece, la necessità di ridurre il cuneo contributivo sui salari: più che giusto, sapendo che è stata questa misura (del Governo Renzi) lo strumento principale di creazione di nuovi posti di lavoro negli ultimi anni.
Una novità molto importante contenuta nel "contratto" è la profonda riforma e il potenziamento dei Centri per l'impiego. Il loro malfunzionamento – dimostrato dal fatto che oggi solo il 3 per cento (sigh) delle nuove assunzioni passano da queste strutture – costituisce una strozzatura drammatica rispetto all'accesso al lavoro dei nostri ragazzi, soprattutto di quelli meno qualificati e appartenenti ai ceti sociali più bassi. Rendere i Centri per l'impiego efficienti e utili al collocamento dei giovani è probabilmente la strategia migliore anche per riattivare il nostro ascensore sociale. Ovvero per evitare che, come accade oggi, i figli dei baristi non abbiano altra scelta che fare i baristi.
Innovative sul piano politico sono anche la previsione di una legge sul salario minimo orario (per le categorie di lavoratori in cui non sia già prevista dai contratti collettivi) e del divieto del praticantato gratuito negli studi professionali. Misure-bandiera teoricamente condivisibili, ma che è necessario congegnare e attuare in modo equilibrato per evitare di trasformare un diritto sacrosanto in un "dirittismo" capace di irrigidire eccessivamente i (primi) contratti di lavoro.
A fronte dell'intelligente pragmatismo che caratterizza tutte queste misure, ha invece un sapore ideologico e retrò l'ostilità dichiarata nei confronti dell'alternanza scuola-lavoro, definita «dannosa» (senza controlli sulla qualità delle attività e sull'attitudine con il ciclo di studi). Abbandonare una strategia appena iniziata, e assolutamente necessaria per evitare che i giovani italiani escano dalle scuole superiori spaesati e inconsapevoli del mondo del lavoro, sarebbe un grave errore. E un danno causato a quegli stessi ragazzi che oggi chiedono di preservare il modello di una scuola "turris eburnea".
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