giovedì 4 maggio 2017
La fuga dalla libertà, su cui Erich Fromm ha scritto uno dei suoi saggi, è una delle dinamiche più sorprendenti dell'essere umano. La spinta irrefrenabile a delegare ad altro o altri la gestione della propria libertà. Il pensiero che viene represso lotta per diventare libero. La possibilità della libertà invece determina indeterminatezza e sgomento in molti, che finiscono per cercare un qualche nuovo padrone cui assoggettarsi. Fino a ora i referenti di questo strano gioco delle parti erano sostanzialmente umani. Oggi siamo di fronte a una versione completamente nuova.
La fuga dalla libertà, ha come referente un insieme di algoritmi gestiti con grande furbizia per l'incremento degli introiti pubblicitari. La filosofia social, in particolare facebook, ma a livelli differenti anche gli altri, è diventata l'entità a cui si affida progressivamente il proprio destino. In misure diverse, ma sempre incisive. Credo che alla base del fenomeno ci sia un sostanziale livellamento verso il basso delle legittime ambizioni umane. La contrattazione della propria libertà ha il prezzo di qualche like, di qualche selfie, che più è estremo più nasconde la frustrazione del preteso riscatto di una vita vuota. A favore di una versione estremamente degradata dei famosi 15 minuti di fama preconizzati da Warhol.
La vampirizzazione da parte di Warhol di star e starlette era possibile grazie alla insaziabile quanto decerebrata compulsione al protagonismo delle sue "vittime". Il gioco era proprio quello di un'apparente glorificazione al prezzo di un irrimediabile baratto identitario. Oggi succede lo stesso su una scala planetaria e in una dimensione talmente da saldo che neanche Warhol avrebbe potuto immaginare. Completamente autoreferenziale, il baratto identitario nel social rimane cortocircuitato su se stesso, autoalimentandosi in maniera sempre più solipsistica e sterile. Fioriscono così artisti, designer, letterati, eroi, chef multistellati, cantanti, scienziati autoproclamati nel delirio minimo. Un compendio di umanità farlocca. Nella stragrande maggioranza dei casi è solo un viaggio nella testa di chi dissimula l'esistenza che non ha. Processo che si nutre di se stesso. Quando la finzione non funziona, aumenta la frustrazione e si alza la posta degli artifici o dei rischi. Artifici e rischi che riguardano solo la recita e non il merito delle aspirazioni.
Questo gioco più ridicolo che perverso, ma i cui risultati sono a volte devastanti, tenta così tanto che ci si affida al social come a un tutore, depositario di discernimento perché testimone della propria messa in scena, prendendo seriamente le sue politiche, i suoi rimproveri e temendo come la morte la sua condanna capitale: la cancellazione del proprio profilo.
Interi dibattiti sulla liceità delle censure effettuate dal social finiscono per dare a questo la dignità di interlocutore, anche detestato, ma autorevole. Questa è un fatto che ritengo devastante. La umanizzazione di un sistema che al massimo ha a che fare col calcolo combinatorio e le strategie di mercato. Un Moloch di codici binari nato per trovare compagnia alle feste di un college americano ed evoluto mostruosamente per una unica vera genialità: intercettare la illusione di esistenza a prezzo zero. Il Moloch è acefalo. Ma è il complice della finzione. Le sue censure, i suoi consigli, le sue carezze e i suoi schiaffi, non sono altro che risultato di una elaborazione statistica di dati digeriti nel suo immenso e stupido stomaco, la cui vera funzione è incrementare i dividendi. Legittima e dichiarata, peraltro. Un uso responsabile ne può fare un grande strumento, e ve ne sono anche tante dimostrazioni. Strumento, non entità.
Invece sono ormai innumerevoli gli esempi, con risultati che vanno dal grottesco al tragico, delle conseguenze di affidare al digitale e quindi all'arbitrio della massa le proprie realtà più intime, i propri rigurgiti più meccanici. Ma la tentazione del raglio del somaro è troppo forte. Non si resiste all'idiozia. A prezzo della propria dignità, della perdita di lavoro, a volte della perdita della vita. È come una roulette della stupidità, con l'insidia della dipendenza da videogame. Ma non è un videogame.
Abbiamo acquisito una libertà forse mai conosciuta grazie a fiumi di sangue, a lotte tremende, a tragedie immani. E cosa facciamo? La affidiamo a una pila di algoritmi calibrati per far fare soldi a qualcun altro, trasformandola in catene che forse non sono pesanti, ma sono sicuramente mortali. Di una morte che non riesce neanche a far commuovere.
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