Leggo due parabole dal carcere: storie di conversione e di dialogo
venerdì 24 marzo 2017
Condivido senza riserve l'uso che Luigi Accattoli fa del termine “parabole”: nel blog classifica spesso come tali i suoi racconti, in quanto “forma narrativa” di cui «la pedagogia testimoniale si è sempre avvalsa», e che ritiene «stia per sperimentare una rinnovata vitalità».
Mi arricchisce l'ultima che riporta ( tinyurl.com/kdu9qmn ), una storia di conversione: gli viene da una visitatrice, Antonella Lignani, e ritrae un carcerato, oggi tornato in libertà e membro attivo della stessa comunità neocatecumenale di colei che narra. Quando era detenuto rimase colpito dalla carezza di una sconosciuta volontaria; così iniziò a seguire le sue catechesi, pur nelle difficili condizioni che il carcere detta: i detenuti non potevano «avvicinarsi gli uni agli altri e nemmeno scambiarsi un gesto di pace». Oggi «è libero», «narra delle prove sostenute con rara pacatezza» e, sebbene solo, è «sereno e felice», perché «ha trovato l'Amore, anzi questo Amore lo è venuto a cercare proprio in carcere».
Mi viene in mente un'altra parabola dal carcere, il cui autore, Ignazio De Francesco (della Piccola Famiglia dell'Annunziata), non ha percorso, per raccontarla, le vie nuove e rapide del web ma quelle lente e antiche della carta e del palcoscenico. Si tratta di “Leila della tempesta”, dialoghi tra una detenuta musulmana tunisina e un monaco cristiano; come spettacolo teatrale, regia di Alessandro Berti, circola da diversi mesi se pur fuori dai “cartelloni” maggiori, e come volume è uscito a fine 2016 per l'editore Zikkaron ( tinyurl.com/kdsoold ). Dialoghi di culture, civiltà e religioni, essi riflettono l'esperienza dell'autore, volontario in carcere caratterizzato dalla perfetta conoscenza della lingua araba. Non sfociano in conversioni in senso proprio, ma non per questo portano in sé una minore “pedagogia testimoniale”, quella di cui parla Piero Stefani nella Presentazione del libro: «Proprio nei momenti in cui è più intenso il desiderio d'incontrare l'“altro”, si tocca con mano che siamo noi a essere “altri per gli altri”».
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