mercoledì 24 ottobre 2012
Torno sul «leggere la vita». In uno degli scritti raccolti in L'altrui mestiere, Primo Levi osserva che nell'Italia del Nord, in un uso colloquiale e soprattutto tra le donne, questa espressione significa «sparlare, spettegolare». Il senso letterale però non è chiaro: perché «leggere»? e perché «la vita»? Dopo ricerche minuziose, che spaziano dalla fraseologia tedesca ai dizionari dialettali piemontesi, Levi arriva a una inattesa conclusione (tra l'altro vicina al suo cognome). Pare che nei conventi, a mattutino, «dopo la lettura delle Sacre Scritture e in specie del Levitico, il priore si rivolgesse poi individualmente ai singoli monaci, lodandoli per i loro adempimenti e più spesso rimproverandoli per le loro mancanze». A poco a poco «leggere il Levitico» o «i Leviti» avrebbe assunto il significato di «fare una ramanzina» e si sarebbe in seguito trasformato, per prossimità di suono, in «leggere la vita». Ma non è tutto. In Liguria, e non solo tra le donne, «gli ho letto la vita» vuol dire «gli ho detto in faccia quello che si merita». Poco distante, sulle colline dell'Alessandrino, il modo di dire è diventato più concreto, e più minaccioso: «Gli ho aperto il libro». Alla mutevole vita non sono concesse altre prove d'appello, lì comincia e lì finisce.
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