Le squadracce si battono con il gioco d'amore di Evra
martedì 2 novembre 2021
Per l'articolo “Nella fatal Verona, la Curva dell'odio”, pubblicato venerdì scorso e ispiratomi dal terrificante quanto reale libro-denuncia di Paolo Berizzi, È gradita la camicia nera (Rizzoli), mi sono arrivati messaggi poco incoraggianti sul fronte della rinascita di una piena democrazia e della gradita tolleranza in questo strano Paese. Diversi lettori di “opposta fazione” (non sì sa poi quale), ma persino colleghi, mi hanno fatto notare che in fondo i movimenti neofascisti, presenti e attivi da Aosta a Canicattì, non sono che «quattro scappati di casa». Dei buontemponi che si divertono a creare un po' di scompiglio negli stadi come nelle piazze, dove per puro divertimento arrivano a fare indossare ai loro accoliti le divise a righine bianche e celesti degli ebrei deportati e sterminati nei lager nazifascisti. Anche la vergogna chinerebbe il capo dinanzi alle oltraggiose coreografie di queste squadracce. Sostengono i benpensanti che lo fanno perché sono gruppi di contagiati dall'ignoranza virale. E poi dicono anche che non conoscono la Storia. Che la «Storia siamo noi», non è solo un ritornello da canto degregoriano, ma dovrebbe essere un valore acquisito da tempo: da difendere ad oltranza e da tramandare alle generazioni che verranno. E invece qui sembra che il tempo sia un gambero, cammina e guarda costantemente all'indietro, e spesso pesca a piene mani i semi peggiori del passato. Chi ha fatto i conti con il suo passato e ne è uscito vincitore è il 40enne difensore ex nazionale francese e della Juventus Patrice Evra. Aspettiamo di leggere al più presto l'edizione italiana della sua autobiografia I love this game di cui ha parlato nell'intervista di rara profondità – per un calciatore – rilasciata a “Repubblica” a Antonello Guerrera. Evra in questo libro racconta di essere stato abusato sessualmente, a 13 anni, da un suo insegnante e di non aver avuto il coraggio di denunciare. «Mi sono pentito di aver taciuto. I bambini devono denunciare queste atrocità», dice oggi Evra che è un padre amorevole e che nonostante quel trauma subito non ha mai smesso di credere, «perché credo in Dio. Credo nell'energia positiva. Per questo “I love the game”». Un credo che è sbocciato qui da noi, quando Evra a 17 anni si trasferì in Italia a giocare in Serie C, nel Marsala. E proprio in Sicilia visse la sua prima esperienza di razzismo da parte di un anonimo compagno di squadra. Ma oggi con la maturità acquisita in campo e soprattutto nel suo percorso netto esistenziale, Evra dice: «Non nasciamo razzisti. È un problema di istruzione, sociale. Il calcio lancia molti messaggi, ma non è abbastanza». La riprova degli scarsi messaggi sono i “daspizzati” a vita che non potranno più entrare negli stadi di Firenze, Torino e Roma (sponda laziale). O forse si tratta di quello che il portierone della Nazionale campione d'Europa e del Genoa, Salvatore Sirigu considera un «inizio. È un atto di coraggio denunciare i razzisti nel proprio stadio, altrove girano la testa». A Genova non girano la testa e come canta dal molo doriano Ivano Fossati in È la disciplina della terra: «Che non si china la testa e non si regala l'intelligenza e la compagnia».
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