giovedì 22 febbraio 2018

Il mondo si può anche raccontare così, come una fuga di soglie che, inseguendosi all'infinito, portano l'umanità a misurarsi con l'infinito. Le finestre di casa e la porta dei vicini, l'architrave che appare all'improvviso in un paesaggio di rocce e il confine impercettibile sul quale la natura si arresta, scegliendo di percorrere la via misteriosa della grazia: trattenere il colpo anziché sferrarlo, risparmiare la vittima per non trasformarsi in carnefice. Succede fin dalla notte dei tempi, nel comporsi e scomporsi di amminoacidi e particelle elementari, nell'esplosione delle stelle e nell'agguato che un dinosauro tende a un altro. Gli posa una zampa sul cranio, ma non lo finisce, anzi lo lascia libero, libero e perplesso. Quale sarà, pare che si domandi l'animale scampato, questa forza silenziosa che riesce a manifestarsi perfino contro la volontà del predatore?
The Tree of Life di Terrence Malick, Palma d'Oro al Festival di Cannes nel 2011, è un film tanto inusuale da apparire pressoché unico, almeno nel panorama cinematografico contemporaneo. Scientifico-filosofico e addirittura teologico nell'impostazione (Malick ha studiato a lungo Heidegger, mentre l'“albero della vita” al quale allude il titolo è il simbolo caro alla tradizione mistica e, insieme, il nome di parte della sostanza cerebrale), il racconto è costruito attraverso una continua alternanza di piani temporali, per cui la storia dell'universo si rispecchia e forse, in qualche modo, si ricapitola nelle vicende degli O'Brien, una famiglia della piccola borghesia statunitense nel Texas degli anni Cinquanta. A comporla sono un padre affascinante e tormentato (Brad Pitt, qui artista fallito e inventore non riconosciuto), una madre dolcissima nell'accudire e sopportare (la bravissima Jessica Chastain) e tre figli, tutti maschi, segnati ciascuno da un diverso destino: la morte, la testimonianza, l'infelicità che discende dalla consapevolezza.
Questo, in particolare, è l'orizzonte lungo il quale si muove l'esistenza del primogenito Jack, che impariamo a riconoscere sia quando a interpretarlo, da adulto, è l'attore Sean Penn, sia quando la sua irresolutezza di adolescente ha il volto del giovanissimo Hunter McCracken. Jack è il più simile al padre tra i fratelli e proprio per questo non può fare a meno di scontrarsi con lui, di giudicarlo nel momento stesso in cui si sente giudicato. La complicità e la violenza, l'abbandono e la perdita si intrecciano in una trama che sarebbe semplicissima, se solo fosse una trama e basta. È un'allegoria invece, il viaggio di Ognuno in cui ciascuno ritrova qualcosa di sé. Violare la soglia del tempo significa anche spostarsi da un luogo all'altro, accadendo allo spazio in cui ogni ferita si rimargina e ogni dolore scopre la sua necessità. La spiaggia, l'acqua del mare, un altro ripetersi di soglie e di attese. E una madre che, finalmente, affida a Dio il figlio che le è stato tolto.
D'accordo, The Tree of Life non è un film facile né immediato, ma è l'occasione perfetta per educarsi a uno dei princìpi fondamentali dell'arte, quello per cui chi si pone le domande più grandi non può accontentarsi di piccole risposte. Ci sono momenti straordinari anche sul piano del racconto (Jack che, dopo aver conosciuto il desiderio e perduto l'innocenza, non vuole più che la madre lo accarezzi) e interpretazioni memorabili. Come quella di Fiona Shaw, che appare in poche sequenze nel ruolo della nonna: molti la ricorderanno per le smorfie della zia “babbana” nella saga di Harry Potter, ma l'attrice irlandese è tra le più importanti di oggi. In The Tree of Life le è sufficiente uno sguardo per farci intuire che lei già sa, lei ha già patito e perdonato. Adesso tocca noi cercare la via della grazia.

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