sabato 1 febbraio 2020
C'è un modo di pensare, abbastanza diffuso, secondo il quale "non c'è bisogno delle religioni per giustificare l'amore, ma la religione è il miglior strumento mai inventato per giustificare l'odio". Questa posizione rappresenta forse uno degli argomenti da sempre più utilizzati dagli anticlericali per esprimere disprezzo verso le religioni in generale e, negli ultimi vent'anni, anche per giustificare l'ostilità verso alcune religioni specifiche, in particolare l'islam, considerate, in modo improprio, "intrinsecamente" non pacifiche. C'è da dire, in proposito, che storicamente non sono mancati gli appigli per vedere un fondo di verità in quel modo di pensare, ma con altrettanta onestà intellettuale va riconosciuto che quegli elementi di giustificazione sono stati figli più della politica che delle religioni in quanto tali. Oggi, allora, è tanto più indispensabile superare "gli interessi di parte" e "i retaggi del passato", e imparare a essere "più ospitali", tra cristiani e tra fratelli delle diverse confessioni religiose.
Più che un auspicio questo, lanciato da Papa Francesco sette giorni fa nel chiudere a San Paolo fuori le mura la Settimana di Preghiera per l'Unità dei Cristiani, è stato un perentorio appello, perché tutti i credenti, e per primi i cristiani, si facciano carico di quello che deve essere il vero ruolo delle religioni nel mondo: unire, e non dividere, avvicinare gli uomini gli uni agli altri, essere fonte di distensione e di pace. «I nostri vecchi – ha detto Francesco – ci hanno insegnato con l'esempio che alla tavola di una casa cristiana c'è sempre un piatto di minestra per l'amico di passaggio o il bisognoso che bussa. E nei monasteri l'ospite è trattato con grande riguardo». A questo proposito, Bergoglio ha citato l'episodio del naufragio della nave di san Paolo a Malta, sottolineando come in quel drammatico frangente «ciascuno contribuisce alla salvezza di tutti: il centurione prende decisioni importanti, i marinai mettono a frutto le loro conoscenze e abilità, l'Apostolo incoraggia chi è senza speranza... Anche tra i cristiani ciascuna comunità ha un dono da offrire agli altri. Più guardiamo al di là degli interessi di parte e superiamo i retaggi del passato nel desiderio di avanzare verso l'approdo comune, più ci verrà spontaneo riconoscere, accogliere e condividere questi doni».
Per questo allora non bisogna «dedicarci esclusivamente alle nostre comunità, ma ad aprirci al bene di tutti, allo sguardo universale di Dio, che si è incarnato per abbracciare l'intero genere umano, ed è morto e risorto per la salvezza di tutti. Se, con la sua grazia, assimiliamo la sua visione, possiamo superare le nostre divisioni». Perché, ed è proprio questo il punto, Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati». E tutti significa proprio ciascuno di noi, non conta se grande o piccolo, forte o debole, illustre o sconosciuto. Anzi, più piccole, più marginale appaiono le persone, più importante, unica e originale è la ricchezza che possono mettere in comune con gli altri.
Non è dunque la povertà materiale, di risorse e di beni, che ci deve allontanare, dividere, spaventare ma, proprio al contrario, la «povertà spirituale dei nostri giorni – secondo quanto disse lo stesso Francesco al Corpo diplomatico nel 2013 –, che riguarda gravemente anche i Paesi considerati più ricchi. È quanto il mio Predecessore, il caro e venerato Benedetto XVI, chiama la "dittatura del relativismo", che lascia ognuno come misura di se stesso e mette in pericolo la convivenza tra gli uomini». È, a ben veder, l'idea portante su cui Giovanni Paolo II si inventò, per così dire, gli incontri di Assisi. Perché non si possa più dire che la religione è il miglior strumento mai inventato per giustificare l'odio. E testimoniare, invece, l'esatto contrario con la nostra vita.
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