venerdì 29 ottobre 2021
Quello che mi manca di più è di non poter prendere in mano il cellulare e chiamare degli amici che sono scomparsi da tempo, ormai tantissimi data la mia età. Tra le conversazioni telefoniche più assidue, nel corso di una ventina d'anni o più, ci sono state quelle con Elsa Morante e con Romano Bilenchi e sua moglie Maria, persone decisamente diverse nel modo di affrontare sia i casi del mondo che la loro vita quotidiana e di tutti, la cronaca pubblica e la cronaca privata. Bilenchi è stato, con Pratolini, un grande amore della mia adolescenza di lettore, soprattutto La siccità e La miseria, due racconti magistrali e duri, due capolavori a cui si è poi aggiunto Il gelo a formare la trilogia di Gli anni impossibili, uno dei vertici della letteratura del nostro Novecento e una lucida e dolente e sempre attualissima introduzione alla vita adulta... Bilenchi fu scrittore essenziale e duro, che partiva da Tozzi e dai russi e che considerava I morti di Joyce come il più bel racconto scritto nel Novecento. Quanti oggi lo conoscono e lo leggono, soprattutto delle ultime generazioni, e quanti dei giovani scrittori e delle giovani scrittrici che, come avvertiva Flaiano, «si fanno una cultura leggendo i propri articoli»? Bilenchi non fu solo scrittore. In gioventù credette nel fascismo come continuatore di un Risorgimento avvilito dai Savoia e dalla cupa classe dirigente post-unitaria, ma cambiò idea al tempo della guerra di Spagna e si fece comunista. Il partito lo aiutò economicamente nell'impresa di un quotidiano, “Il Nuovo Corriere”, che è stato assolutamente il migliore e il più aperto ma anche il più combattivo e sincero degli anni Cinquanta. Ma Bilenchi vi scrisse nel 1956, prima della Rivoluzione ungherese, degli editoriali in difesa degli operai di Poznan in lotta contro il regime imposto alla Polonia dall'Urss, e il partito glielo fece chiudere, tagliandogli i fondi. Nella Firenze del dopoguerra furono il primo sindaco comunista di Firenze e poi il grande La Pira che contribuirono a fare di quella città un faro di libertà e di dialogo, nel pieno della Guerra Fredda. Bilenchi, deluso dalla storia della sinistra, non uscì più di casa fino alla morte, ma l'appartamento di via Brunetto Latini alle Cure fu un un centro attivissimo di idee e di incontri, frequentato da amici fedeli tra i quali due ragazze ammirevoli, Grazia Cherchi, che fui io a portargli, e Benedetta Centovalli, poi curatrice di diverse delle sue opere. Scrittore scabro, raro, essenziale, in un italiano perfetto che, oltre Tozzi, guardava alla purezza delle “croniche” del Compagni e del Villani, ha scritto e pubblicato poco, ma niente, mai, che fosse inutile o superfluo, e sarebbe ora di riscoprire (alcuni titoli sono ancora nel catologo Rizzoli), pallidi prof. universitari e non solo voi, con i racconti anche i due romanzi che stanno all'inizio e alla fine della sua storia di scrittore, Conservatorio di Santa Teresa e Il bottone di Stalingrado, senza dimenticare i bellissimi ritratti e le bellissime cronache raccolti in Amici e altrove.
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