Le pagine di Chiaromonte avviano alla «libertà di pensiero» gli intellettuali
sabato 6 aprile 2013
Se posso permettermi, consiglierei (lo consiglio intanto a me stesso) di leggere gli scritti di Nicola Chiaromonte (1905-1972), almeno una decina di pagine, almeno una volta al mese, magari in alternativa ai giornali, per tenere la mente libera da nozioni vaghe e falsi problemi. La saggistica di Chiaromonte è uno dei più puri e solidi modelli di prosa morale e razionale della nostra letteratura novecentesca. Ma le sue opere restano introvabili, andrebbero ristampate. Comunque, i suoi lettori sono sempre stati pochi e restano pochissimi, a tutto vantaggio di una quantità di politologi e giornalisti politici che non riescono a immettere nella nostra testa l'ossigeno della tanto onorata ma non facile "libertà di pensiero".Per fortuna le Edizioni dell'asino mettono ora in circolazione Il tempo della malafede e altri scritti, un'antologia a cura di Vittorio Giacopini. Il primo saggio, "La situazione di massa e i valori nobili", meriterebbe che si formassero dei gruppi di discussione e di studio. Chiaromonte parte da Ortega y Gasset e da Hannah Arendt per valutare il rapporto di continuità e discontinuità fra la filosofia politica di Platone e quella di Marx. Secondo Platone, bisogna prima arrivare alla verità da soli, poi tornare fra i propri simili e aiutarli a capirla. Marx afferma invece che la verità utile, la sola che conti, la si può e deve trovare insieme agli altri, accettando le servitù e lo stato di necessità in cui vive il genere umano, la "massa" sociale, oggi.Ma oggi gli addetti alla verità e alla tradizione culturale, gli intellettuali, sono essi stessi "massificati" e asserviti a logiche di categoria istituzionale e di parte politica. Così, la verità viene cercata e dichiarata solo se serve, mentre le necessità sociali rendono indifferenti alle verità inutili. Dunque cosa viene prima, la verità o la società? E gli intellettuali che cosa sono oggi rispetto a quello che erano ai tempi di Platone o di Marx? Valgono in quanto singoli, come voleva Kierkegaard? O solo in gruppo, come hanno voluto le avanguardie novecentesche in arte e in politica? C'è più verità nella misantropia e nella solitudine o nello spirito comunitario e gregario? La risposta deve esserci, ma non sempre sarà la stessa.
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