giovedì 4 agosto 2016
Era un paesino sul lago Maggiore, alle spalle del monastero di Santa Caterina, che dirupa a perpendicolo sull'acqua. Il luogo era stato abbandonato, nonostante i pittori avessero lasciato i loro affreschi sui muri dei viottoli. Erano rientrati quattro gatti e il sindaco, una donna giovane, aveva riattivato l'alberghetto. Dalla pianura ci si arrivava dopo una sfaticata di tornanti brevi ed acuti. Di sera, con poche luci, intrattengo abitanti e sporadici turisti. Sono appoggiato a un muretto e disegno il mondo secondo i miei occhiali. Ricordo di aver detto del fatto che si incontra ovunque gente con scartoffie sotto il braccio ma che nessuno costruisce qualcosa di cui poter mangiare. Il mattino è piovoso e buio e scendo con la mia borsa dalla stanzetta d'albergo al bar per il caffè, prima della partenza. Mi si avvicina una donna, che ha fra le mani un grande ombrello colorato e chiuso, da pastore. Mi affronta senza mezzi termini: «Sono venuta per darle le ombrellate che adesso sentirà. Si ricordi che sarà lei un fannullone e tutta la sua famiglia. Mia figlia parte da casa ogni mattina alle quattro per fare il pane in Svizzera». Non mi è facile convincerla del mio rispetto per il suo sudore familiare. Riesco a stento a scampare le percosse. Starò più accorto a non generalizzare.
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