mercoledì 27 dicembre 2017
Se si pensa che Vincenzo Bellini è morto a 34 anni, nel 1835, ci si domanda, ammirati, come abbia fatto a comporre tali capolavori in così poco tempo: Il Pirata, 1827 (a ventisei anni); La Sonnambula e Norma, 1831 (a trent'anni); I Puritani, 1835 (lo stesso anno della morte). Sono titoli che Maria Callas ha portato alle stelle, e il mio interesse per Bellini è mediato dalle interpretazioni della Divina. L'edizione critica dei Carteggi belliniani (Olschki, pagine 648, euro 76,00) consente di sporgerci dal balcone della storia per contemplare e assaporare una temperie artistica che oggi ci pare incredibile. La curatrice Graziella Seminara, nell'ampia introduzione, ripercorre la vicenda editoriale dei Carteggi, incominciata nel 1869 con la pubblicazione di gran parte del corpus a cura di Francesco Florimo, condiscepolo di Bellini al Conservatorio di Napoli. Seminara denuncia i tagli e le manomissioni disinvoltamente perpetrate dal Florimo, sia pure con l'intenzione di monumentalizzare l'amico di gioventù, e sviluppa i passaggi che conducono alla presente edizione critica, definitiva almeno fino a quando non spunteranno altre missive del genio catanese. Nell'impossibilità di dar conto adeguatamente della ricchezza informativa delle 517 lettere contestualizzate da Seminara, mi limito a due preferenze personali. La prima riguarda Giuditta Pasta, la più callassiana delle primedonne dell'Ottocento. Giuditta (1797-1865), fu mezzosoprano e soprano come la Callas, con carriera folgorante e relativamente breve. Siccome mi capita spesso di percorrere la strada Regina lungo la sponda occidentale del Lago di Como, quando giungo a Moltrasio penso che lì Bellini compose La Straniera e La Sonnambula. In loco circola la leggenda che, di notte, Bellini suonasse il pianoforte e Giuditta Pasta, da Blevio – dall'altra sponda – rispondesse con il canto. Ascoltare Ah, non credea mirarti nella quiete notturna del lago lenito dalla Luna dev'essere un incanto che meriterebbe d'essere vero. L'altra mia curiosità riguarda il conte Carlo Pepoli, autore del libretto dei Puritani. Il Pepoli (1796-1881) era amico di Giacomo Leopardi (1798-1837) che gli dedicò un canto dal famoso incipit: «Questo affannoso e travagliato sonno / che noi vita nomiam, come sopporti, Pepoli mio?». Una poesia che mi colpì fin dagli anni scolastici, nella quale Leopardi s'immagina vecchio e inaridito al punto di smettere l'esercizio poetico per dedicarsi alla filosofia, a investigare «l'acerbo vero». Ebbene, il Pepoli, che partecipò ai moti mazziniani del 1831, dovette riparare in Francia, e lì frequentò Bellini che gli commissionò il libretto dell'opera. Il carteggio rivela che il musicista lo chiamava confidenzialmente «mio caro Carluccio» e si firmava «il tuo Vincenzillo», ma talvolta si spazientiva. In una lettera del 4-5 agosto 1834 confidava a Florimo: «Pepoli mette tutto il suo studio nel gioco di combinazioni poetiche, o per dir meglio in certa maniera di risposte, che mi fa perdere la pazienza (resta fra di noi, io lo credo secco secco d'espressioni che abbiano figure, e sentimenti, perciò stenta lo stentabile non nel fare i versi come egli crede, ma dei versi alla mia maniera, che sono quelli che dipingono le passioni al più vivo)». Malgrado ciò, I Puritani divenne il capolavoro che è. Maria Callas imparò l'impervia partitura in una sola settimana mentre alla Fenice di Venezia impersonava Brunilde nella Valchiria wagneriana: incalzata da Tullio Serafin, sostituì Margherita Carosio, indisposta, nella parte di Elvira. Ascoltate dalla Callas O rendetemi la speme, e commuovetevi pure.
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