mercoledì 28 settembre 2016
Allora, si usava che i primi dieci giorni, da militare, non si poteva uscire dal perimetro della caserma. Lì ho imparato come, purtroppo, non sia difficile plasmare un popolo. Entrati tutti barbuti e capelloni, dopo tre giorni eravamo rasati come palle da biliardo ed, entro una settimana, ognuno, anche da solo, cantava senza alcuna imposizione il terribile inno dell'ottantanovesimo reggimento: «Ottantanove sei tu, reggimento di virtù…». Il testo era piuttosto semplicistico ma io lo potrei cantare ancora adesso. Ci vuole niente per diventare all'improvviso tutt'altro da quel che si era. Non così per il mio illustre concittadino, il generale Giuseppe Dezza. Di una solida famiglia borghese, giovane ingegnere, si arruola nei cacciatori delle Alpi, poi sbarca con Garibaldi fra i Mille dell'impresa. Fu vincitore della battaglia di Custoza, quindi aiutante di campo del re e senatore. In paese era considerato una testa calda. Muore alla fine dell'800 e la famiglia perde la tradizione militare di generazione in generazione. Ernesto, l'ultimo rampollo dei Dezza, ormai quarantenne, è figlio di una mamma sudamericana e non farà nessuna guerra. Diventa invece frate francescano ed ora, Padre Ernesto, con la divisa diversa da quella del suo avo, segue il comandante Francesco, e frate foco con lui.
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