domenica 6 maggio 2018
Metropolitana di Milano. Linea "Uno", quella "rossa". Metà mattinata, direzione Duomo. Di fermata in fermata i vagoni raccolgono e rilasciano la loro quotidiana umanità. Studenti, pendolari, pensionati, turisti, e poi un arcobaleno di storie. Giocolieri, musicanti e mani tese che raccontano vite, non sempre a lieto fine. Ma nelle carrozze, quello che rimbomba di più è il silenzio, pesante come un respiro di pietra.
Il treno sotterraneo corre veloce, ondeggia a destra e a sinistra che ormai per i viaggiatori consuetudinari è un'abitudine, come i rintocchi ad ogni ora di una pendola a muro, appesa nel soggiorno di casa e che non dà noia più a nessuno della famiglia.
Il personaggio, italiano e sulla cinquantina, si palesa lentamente, la voce bassa tradisce l'indugio di una evidente emozione. Dice di chiamarsi Ivan. Berretto calato sul volto a nascondere gli occhi tenuti sempre bassi, lunghi e radi capelli a finire sulle spalle da vecchio hippy, una sacca a tracolla mezza sgonfia su un corpo magro e smunto, pantaloni corti ai polpacci, scarpe da tennis che una volta erano state bianche. Ivan racconta la sua storia premettendo, e se ne percepisce un sapore di onestà, di vergognarsi molto a farlo così, coram populo.
Qualcuno dei passeggeri distrattamente solleva un occhio dall'imperituro telefonino sempre attivo di giochetti digitali, messaggini che vanno e che vengono, video musicali e film dei soliti Supereroi alle prese con le loro avventure incredibili e altrettanto inverosimili, che ci fanno credere in una vita indistruttibile. Un solo occhio alzato è più che sufficiente per dare una scrutatina a quanto accade attorno, intanto che auricolari e cuffie stereofoniche martellano le orecchie di musica e, soprattutto, tengono lontano il mondo degli altri.
Ivan parla: «Sono malato di Aids. Allo stadio terminale». «Mi resta poco tempo da vivere». «Sono consapevole che morirò presto». «La vita mi ha segnato». «Che colpa è la mia?». «Perché devo morire?». «Vi chiedo di aiutarmi, non posso comprare le medicine». «Mi vergogno, ma aiutatemi». «Datemi anche solo dieci centesimi». «Dieci centesimi, solo dieci centesimi: a voi che differenza vi fanno dieci centesimi?».
Guardo Ivan, guardo la gente seduta sulle due file di sedili, guardo le cuffie compresse sulle orecchie, e mentre lui ancora ripete la sua storia e parla di Aids, un tempo un tabù di cui conservare gelosamente il terribile segreto, mi sembra quell'attore di teatro che sale sul palcoscenico di fronte a un pubblico che non ha comprato il biglietto per lo spettacolo. Ivan solitario nel silenzio degli altri.
Lo scompartimento continua il suo viaggio. Anche i passeggeri continuano il loro viaggio con la testa e le orecchie tamponate dalle cuffie stereofoniche. Nessuno ha sentito o capito nulla di quello che raccontava Ivan, come la ragazza che mi sta di fronte che per un attimo ha alzato gli occhi dal suo mondo "socialdigitale" per guardare di fronte a sé un uomo piantato in mezzo alla carrozza che muoveva le labbra. Mentre Ivan prosegue nella ricerca dolente dei dieci centesimi, recitando il suo dramma nella carrozza successiva, molto ingenuamente mi chiedo: con tutte quelle orecchie tappate dalle cuffie stereofoniche, se invece di elemosina, si fosse trattato di un allarme di pericolo? E in effetti di un pericolo si trattava: il rischio di non percepire più il grido d'aiuto degli altri intorno a noi.
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