mercoledì 7 maggio 2014
​La Resistenza che vien fuori dai racconti di Giulio Questi, Uomini e comandanti (Einaudi, pagine 196, euro 18,00) non ha niente di eroico né di ideologico: è una guerriglia condotta da bande sbandate che talvolta compiono gesta non prive di viltà, e sono sempre sul chi vive sia in vista degli scontri con i tedeschi, sia per i sospetti di infiltrati, possibili delatori. Ma andiamo con ordine.
Giulio Questi è un ex partigiano, oggi novantenne, autore di alcuni film non privi di efferatezze e oscenità e che ? informa l'ampia postfazione di Angelo Bendotti ? è stato anche attore, per esempio interpretando Giulio Mascalchi nella Dolce vita di Fellini. Negli ultimi decenni si è dedicato a documentari autoprodotti, apprezzati dai non molti critici che li hanno visti.
I quindici racconti non sono tutti resistenziali. Bucolica 1945 è la storia di alcuni carbonai di montagna che ammazzano un mite commerciante di rabarbaro. Anno Domini 1946 racconta il fortunoso viaggio di alcuni passeggeri che hanno perso il treno e devono arrangiarsi di notte sui carri dei cavallanti. Graffiti di provincia è una favola sull'invasione delle blatte in un piccolo paese settentrionale. Insonnia è il racconto quasi surrealista di un poliziotto che entra (o gli pare di entrare) nel sogno di un assassino di prostitute. Caribe parla di una troppo lunga telefonata di Gabriel García Márquez che mette in difficoltà il narratore che a sua volta deve urgentemente usare quell'unico apparecchio (questi ha veramente incontrato García Márquez in Colombia, ricavandone questo solo bozzetto).
I racconti resistenziali, sostenuti da una scrittura denotativa, con brevi squarci lirici, prendono allo stomaco (peccato qualche mezza bestemmia, una più grave). Il più espressivo è forse Educazione di Clem, iniziazione di un ragazzo al sesso, che dapprima lo disgusta, in quella temperie di morte, di sangue, di paure e di tradimenti. Ma anche La cassa, che racconta la fatica di cinque partigiani per trascinare la bara di un compagno, in montagna e poi lungo binari della ferrovia fino al cimitero in cui dare al defunto una sepoltura «come si deve», lascia stupefatto il lettore per la naturalezza del crudo realismo narrativo. E leggendo Una battaglia sembra proprio di sentire gli spari, di vedere i corpi insanguinati, di ansimare nella corsa di chi cerca di scampare. Qui, in particolare, l'autore non trattiene l'ammirazione per il Comandante M., elegante e decisionista stratega, che però, nel racconto successivo, tanto per serrare le fila e rompere la monotonia, ordina: «Domani un paio di voi vengono con me. Andiamo a B. a uccidere il prefetto». Ecco, azioni isolate e senza futuro, assai contigue al crimine, intessono la Resistenza di Questi, che pure è efficace nel riportare quei brandelli di vita rischiosa e disperata. Azioni che lasceranno durevolmente il segno come viene riportato nei Documenti che trascrivono sedute psicoanalitiche o ricordi di chi le ha compiute. Come dimenticare di aver collaborato a chiudere vivo in una bara un funzionario delle imposte «una vera carogna» per portarlo alla fucilazione, crivellando di rivoltellate il coperchio come risposta all'invocazione «Aria... aria...» del condannato? E come meravigliarsi se un vecchio partigiano, nel dormiveglia, riconosce negli uomini che vengono a prenderlo con una bara i visi di coloro che aveva ucciso lui negli ultimi giorni di guerra? La Resistenza è stata anche così, e bene ha fatto Questi a testimoniarlo.
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