giovedì 20 settembre 2018
La vita di ognuno di noi è un segreto custodito da qualcun altro e che può essere svelato in qualsiasi momento. Per ottenere un tornaconto, a volte. Ma a volte – e grazie al Cielo – per ottenere che un po' di giustizia sia finalmente fatta. Capita magari alla fine di un pranzo fin troppo sontuoso rispetto alla casa in cui è apparecchiato, quando il più illustre degli ospiti si alza per ricordare l'epoca in cui viveva lontano, a Parigi, e apprezzava i manicaretti serviti da una grande chef, una donna che poi ha perduto tutto, beni e affetti, nel tumulto della Comune. Quale sia stato il suo destino non si sa, ma la cena di stasera me l'ha fatta tornare in mente, conclude.
È il momento più alto del Pranzo di Babette, il film diretto nel 1987 dal danese Gabriel Axel sulla scorta dell'omonima novella della sua connazionale Karen Blixen. Nel suo discorso il generale Lowenhielm (impersonato da Jarl Kulle) non dice di aver riconosciuto la celebre cuoca nella domestica che, per una serie di circostanze imprevedibili, si trova ora a servizio delle sorelle Martina (Birgitte Federspiel)e Philippa (Bodil Kjer), anziane figlie di un severissimo pastore protestante. Gli indizi sono inequivocabili, la Babette alla quale viene solitamente chiesto di preparare una triste zuppa di pane non può non essere la stessa che governava sulla cucina del Café Anglais, eppure il generale non trae le conclusioni. Preferisce lasciare il compito agli altri commensali e, di conseguenza, ai lettori del magistrale racconto di Karen Blixen, agli spettatori del film di Axel. Lui continua a preservare il segreto di cui è depositario. Riesce a essere sincero e insieme delicato, combinazione non impossibile, ma che richiede pazienza, educazione, tatto. Perché non sempre "parlare chiaro" corrisponde a "dire la verità".
Il pranzo di Babette, com'è noto, è uno dei film più amati da papa Francesco, per ragioni che non è difficile comprendere. Per i riferimenti evangelici, anzitutto. Non solo il banchetto rimanda a quello allestito dal re della parabola per le nozze del figlio, ma c'è anche il fatto che Babette non esita a rinunciare al suo tesoro prezioso (i diecimila franchi vinti alla lotteria) pur di mettersi in comunione con gli altri, rivelando qualcosa di sé senza rinunciare del tutto – una volta di più – al proprio segreto. Dal film emerge una visione del cristianesimo che corrisponde perfettamente a quella promossa da Bergoglio: la centralità della gioia, qui espressa da un'agape non soltanto simbolica (la fede non può mai accontentarsi di essere simbolica), si contrappone a un rigorismo che finisce per trascurare l'umanità dei credenti. Da questo punto di vista, la goffa danza notturna degli invitati per le strade del villaggio addormentato non contraddice, ma porta a compimento la predicazione del defunto pastore, che nel suo tentativo di garantire la salvezza delle figlie le ha in realtà confinate in un'infanzia innaturalmente prolungata. Rimaste bambine per volere del padre, adesso Martina e Philippa ritornano bambine veramente, come desidera il Maestro.
Vincitore dell'Oscar come miglior film straniero nel 1988, Il pranzo di Babette custodisce a sua volta qualche piccolo segreto a beneficio dei cinefili. La protagonista, Babette, è interpretata da Stéphane Audran, che di recente i lettori di Lumière hanno trovato nel cast del Fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel, ma anche quello di Martina è un volto noto, sia pure modificato dal tempo: Birgitte Federspiel era infatti Inger in Ordet di Carl Theodor Dreyer, altro capolavoro del cinema danese, altra parabola sulla necessità di vivere il cristianesimo non come un'abitudine, ma come "un'avventura amorosa".
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