martedì 18 aprile 2017
“Cela la speranza nel volto, reprime il dolore profondo nel cuore”. (Virgilio, Eneide 1, 209)
Manca poco alla ricorrenza solenne che, per l'intero mondo cristiano, è fra tutte la più sacra: ragion per cui oggi ho deciso di mettere da parte ogni altra questione e - per così dire - prepararmi all'evento, non tanto allo scopo di chiarire qualcosa intorno al senso della festa (le mie modeste risorse, infatti, non offrono nulla che basti a tale compito), quanto di richiamare alla mente - insieme coi lettori -l'insegnamento che traggo da una così importante ricorrenza simbolica. Sappiamo infatti dal racconto evangelico di come Gesù, pressappoco in questi giorni, dopo il suo ingresso a Gerusalemme, fosse tormentato dal pensiero della morte imminente; di come, ritiratosi in preghiera sul monte degli ulivi, fosse pervenuto a un tal grado d'angoscia e paura da pregare il padre di allontanare da sé il calice destinatogli: cosa che senz'altro - se non sapessimo ch'egli era stato investito in sommo grado della natura umana - ci sembrerebbe in aperta contraddizione con la sua natura divina. Ma, pur avendo dato corso a siffatte inquietudini dell'animo (quanto intensa è la commozione nelle Sacre Scritture!); pur avendo - credo - non scacciato, ma ricacciato la paura nel profondo del cuore, egli si sottomise alla volontà paterna e decise di resistere con coraggio alla sua sorte, accogliendone gli affondi tormentosi. Ho sempre pensato che quel passo, benché di Gesù si tratti, riguardasse universalmente tutti gli uomini: quest'esempio che viene non dalla vetta del divino, ma dall'intimo dell'umana condizione ci ammonisce a non distoglierci vigliaccamente dal nostro dovere sotto i colpi dell'angoscia e della paura. Oggi però, di fronte alle disgrazie che - non senza paura - vediamo assalirci quotidianamente, è invalsa l'opinione che, per vivere tranquilli, ci si debba adattare; che, in tutti questi frangenti, si debba far finta di niente. Tuttavia, nel comportarci così, innalziamo intorno alla nostra coscienza una barricata, fatta d'una felicità volatile, che ci conservi impassibili al cospetto dei mali. Ma, guardando all'esempio reverendo di quell'uomo divino, io mi domando: attribuiremmo egual valore alla Sua morte se essa non si fosse compiuta attraverso la paura e il dubbio? La risposta la lascio al dibattito dei grandi teologi; per quanto mi riguarda, tutte le volte che la paura m'inibisce nel compimento di un'azione buona od onesta, trovo utile richiamare alla memoria l'esempio di colui che, per indicare agli altri il cammino d'una vita giusta, ritenne che la morte stessa andasse sprezzata.
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