martedì 13 settembre 2016
«Ho conosciuto anch'io il dolore, e ho imparato a soccorrer gli afflitti» (Eneide 1, 630). La sapienza antica ci ha tramandato un adagio: «Ogni sofferenza è un insegnamento». Il proverbio non si riferisce però alla severità di quell'Orbilio di cui parla Orazio, che insegnava solo terrorizzando a suon di busse, ma ben più profondamente si tratta della coscienza della propria debolezza, che solleva l'animo a sapienza più solida. È lo stesso concetto sotteso al motto sul tempio d'Apollo a Delfi: «Conosci te stesso»; o alla frase sussurrata al trionfatore a Roma: «Ricordati che sei un uomo». Nessuno, infatti, può esser davvero sapiente, giusto, felice, se non si ricorda dell'umana fragilità.«Ma oggi – dirà qualcuno – abbiamo già quasi vinto la morte coi progressi della medicina! Abbiamo domato la natura con la tecnologia! Non c'è nessun ostacolo che oggi non si sia in grado di superare». Ma ci si guardi attorno: si vedranno i mortali ancora afflitti da innumerevoli mali prodotti in parte dalla natura, in parte apportati dalla ferocia o dall'irrequietezza degli animi umani. E dunque? Son questi lamenti che gli antichi han profuso con volto severo? Nient'affatto: le loro voci non sarebbero giunte fino a noi, se ci avessero insegnato solo a piangere.Il dolore sarà però non vano, se grazie a esso ci saremo abituati non solo a patire, ma anche a compatire. Solo chi comprende d'essere salvo, ma non al sicuro dalle angosce che oggi opprimono altri, potrà dire di conoscere sé stesso e con sé ogni uomo. «La natura – dice Seneca – ci ha generati fratelli: come lei comanda, siano pronte le nostre mani ad aiutare!». È questa la formazione all'humanitas alla quale ci esortano continuamente i classici: come infatti non c'è nulla che leghi tutti gli uomini fra loro più della consapevolezza della fragilità della nostra natura, così mai si manifesta più chiaramente l'humanitas, di quando tentiamo d'aiutarci gli uni gli altri, di soccorrere col nostro aiuto la debolezza o la disgrazia altrui. Sempre Seneca c'insegna: «La nostra società è assai simile a una volta di pietre, che cadrebbe se non si sostenessero le une con le altre, ma sta in piedi proprio per questo». Facciamo dunque anche noi in modo che dalla calamità comune apprendiamo l'umanità, se vogliamo esser degni del nome di uomini.
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