martedì 11 ottobre 2016
«Vogliamo addirittura raggiungere il cielo con la nostra stoltezza» (Orazio, Carm. 1, 3). Son già trascorsi 500 anni da quando Tommaso Moro pubblicò un testo notissimo non solamente per l'eleganza, ma anche per la rilevanza filosofica, intitolato «Utopia». Con esso volle stimolare i suoi contemporanei, già allora colpiti dalla novità della scoperta dell'America, perché attraverso l'immagine di un'isola appena scoperta iniziassero a pensare al miglior modello di Stato. Egli narrò tutto ciò che riguardava gli abitanti di quell'isola in maniera tale che nulla potesse essere migliore o più sano per viver bene e beatamente. Non sfuggì tuttavia a nessuno che quella città, quanto pareva eccellente, tanto non esisteva in alcun luogo: questo senz'altro si voleva indicare con il nome d'Utopia.Ma le costruzioni letterarie sono del tutto dissimili da edifici reali e non abbisognano di fondamenta di pietra, bensì di menti eccelse per essere innalzate verso il cielo. E giacché questo era accaduto con l'Utopia – oddio – con quanto splendore essa si erse! Molti altri, seguendo le vestigia di Moro, infusero a sé stessi la speranza e se non riuscirono realmente a mutare molte cose che ritenevano si dovessero riparare nell'umana società, almeno le migliorarrono con la riflessione e la ragione. In ciò risiede tutta la forza dell'Utopia: incita ed educa sempre gli uomini alla ricerca di mete migliori.Purtroppo però gli uomini d'oggi, quasi fossero in guardia per il timore d'essere delusi, non osano più sognare nulla di meglio dell'esistente, e anzi ciò che è stato Utopia s'è mutato in Distopia. È incredibile constatare quanti spettacoli ci siano offerti, attraverso cui i nostri occhi vengono sottoposti non a cose migliori bensì peggiori, come a gustare un'oscura voluttà sperimentando quanto ancora si possa procedere più vicino al baratro. A quel punto, disdegnando le cose terrene, iniziamo a guardare al cielo, come se potessimo elemosinare di lì un barlume di luce o la speranza della beatitudine. Precipitiamo a tal punto nella disperazione, che crediamo preferibile iniziare una nuova vita in non so quale mondo, piuttosto che trasformare il presente.Ma, si lamentino pure tutti, dirò quel che penso: è tempo che impariamo nuovamente ad anelare grandi cose, che saranno maggiori perché temprate da un'esperienza secolare. Infatti cosa giova a chi si lamenta della propria condizione essere obnubilato da effimeri timori? Al contrario, se desideriamo cambiare qualcosa in noi e nella società, nonostante ciò sia lungo e difficile, occorre prima di tutto che lo cogliamo con la mente, e gli altri siano infiammati quasi dalla diffusione di scintille. D'altra parte dobbiamo ricordarci sempre: nessuno ha mai meritato nulla se non ha osato sperare.
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