giovedì 26 ottobre 2017
I ministri della pubblica istruzione di tutt'Europa non troppo tempo fa si son riuniti per discutere sulle riforme dei percorsi di studio in tutto il vecchio continente. Diverse e varie furono le opinioni; i ministri discussero fra loro concitatamente del criterio col quale si debbano formare gli insegnanti, dei metodi per valutare non arbitrariamente la preparazione degli alunni, della necessità di offrire a tutti l'opportunità d'imparare; e non giunsero facilmente a un'unica deliberazione su questioni così spinose e complesse: perché certo ogni nazione ha le proprie condizioni e circostanze diverse, che solo con grande e ardua fatica possono portarsi a un punto di convergenza tale, da armonizzarsi fra loro. Tuttavia uno fu il punto sul quale tutti convennero con incredibile e sommo consenso: gli studi e le materie, attraverso le quali i giovani per secoli venivano formati culturalmente e moralmente, che erano stati chiamati “cibo dell'humanitas” da Cicerone, che dagli umanisti che fiorirono nel secolo XV erano state considerate utilissime per una migliore conduzione dello Stato e per bene amministrare le molteplici attività della vita, oggigiorno, quando quasi tutto è cambiato attorno a noi, sarebbero pressoché inutili e da rigettare con disprezzo; al posto di esse, che già da un pezzo si sarebbero ricoperte di ruggine e polvere, si dovrebbero sostituire le nuove tecnologie e le molteplici conoscenze della tecnica, che sarebbero di gran lunga più utili per promuovere il progresso dell'umana società; anzi, “cultura” non dovrebbe essere più giudicata quella che ci si procura con lunga meditazione e frequentazione assidua, giorno e notte, degli autori classici, discutendo con chi ne sa più di noi, e mettendo a confronto l'esperienza e la pratica con ciò che da quest'assiduo colloquio abbiamo còlto come frutti abbondanti; macché: “cultura” sarebbe piuttosto quella che vediamo nascer quasi spontaneamente dall'attività pratica di ciascuno e dalle opere manuali; onde si dovrebbe concludere che i nostri adolescenti sian troppo a lungo trattenuti nelle aule scolastiche, in quei dannosi licei che non servirebbero a nulla, nei quali null'altro potrebbero imparare se non una dedizione a questioni non utili a far soldi e alla produttività economica, e praticamente vane: che cosa sia giusto e cosa ingiusto, se la legge scritta dagli uomini sia sempre uguale alla giustizia, quale sia l'ideale della bellezza, se la virtù possa insegnarsi, se l'ospite e lo straniero sia o non sia sacro e inviolabile, quali siano i doveri della vera amicizia, come gli uomini possano render migliori gli Stati, se il più feroce debba dominare sugli altri con la forza, che cosa definisca le arti liberali e quelle che son loro confinanti, ossia la scultura, la pittura, l'architettura; come si possa lenire la depressione, dalla quale moltissimi sono oggi mortalmente afflitti, in che modo possiamo vincere la paura della morte, tanto da sembrare trionfar su di essa; se le mutazioni e le alternanze della sorte davvero ci riguardino, quale sia la vera sapienza, come uomini diversi, che credano in un unico Dio, in molti, in nessuno, possano giungere a una concordia e a un'armonia degli animi; infine, se esista una verità o se sia solo un mero sogno e un'ombra inane, che c'immaginiamo da soli. O, che questioncelle vane e inutili! È meglio non perder tempo con tali sciocchezzuole: quattro anni son già più che sufficienti, perché i giovani se la spassino con queste inezie; meglio che sùbito passino a cose più importanti e si preparino alla vita e a diventar servi dei potenti.
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