giovedì 18 ottobre 2018
Il 2018 è l'anno di Frankenstein. Saggi, biografie dell'autrice Mary Shelley nata Wollstonecraft, riscritture di diverso tipo hanno celebrato il bicentenario della pubblicazione di un romanzo che, com'è noto, è stato molto amato dal cinema, in una serie di trasposizioni il cui apice continua a essere rappresentato dal parodistico Frankenstein Junior diretto nel 1974 da Mel Brooks. Ma nel 2018 cade anche il cinquantenario di un altro film che ha a che vedere con il crinale minaccioso tra la vita e il suo contrario, e cioè La notte dei morti viventi di George A. Romero, che attribuisce cittadinanza stabile alla figura dello zombie nell'immaginario contemporaneo. Politico negli intenti quanto il romanzo di Mary Shelley era filosofico nelle implicazioni, il film di Romero è all'origine dell'epidemia di cadaveri ambulanti che oggi dilaga, in particolare in serie televisive come The Walking Dead.
Per un cinefilo non è una scelta facile, questa tra Frankenstein e gli zombie. Come cavarsela? Come si fa di solito in questi casi: con un passo di lato, che permette di tenere d'occhio questo e quello, senza neppure rinunciare all'attualità. Del Golem di Paul Wegener, classico del cinema muto datato 1920, è infatti stata presentata di recente alla Mostra del Cinema di Venezia una versione restaurata, che permette di recuperare almeno in parte l'emozione provata dagli spettatori di quasi mezzo secolo fa. Condannato a una non-vita che lo accomuna agli zombie, il Golem somiglia molto anche alla Creatura di Frankenstein, essendo a sua volta frutto di un esperimento estremo. Solo che in questo caso filosofia e politica (pur presenti fin dall'inizio nell'elaborazione medievale e rinascimentale del mito) non sono sufficienti e per comprendere appieno la favola tenebrosa occorre lo sguardo della teologia, sia pure nella variante magica della teurgia. Del resto, fu lo scrittore ed esoterista Gustav Meyrink a introdurre nell'inquieta modernità novecentesca la leggenda di come Rabbi Jehuda Löw abbia suscitato dall'argilla – per poi pentirsene – un difensore prodigioso a favore degli ebrei di Praga. Il romanzo di Meyrink, apparso a ridosso della Grande guerra, è perfettamente contemporaneo delle prime pellicole ispirate alla vicenda, tra le quali quella del 1920 spicca per fascino e compiutezza. Il regista, Wegener, è anche l'interprete nel ruolo della creatura che cammina o si arresta, agisce o si paralizza a seconda che sul suo petto sia o non sia appuntata la formula magica ottenuta a caro prezzo dal cabalista Löw, interpretato da Albert Steinrück. Condizione terribile, certo, ma resta il fatto che il Golem di Wegener non è privo di un umorismo per lo più involontario, che trova espressione in smorfie occasionali, nell'improvviso sgranare degli occhi e storcersi della bocca. L'impressione è che i destini degli uomini gli risultino indecifrabili e quindi anche un po' buffi. Ne comprende i sentimenti, tanto da provare trasporto per Miriam, la bella figlia del Rabbi (la impersona Lyda Salmonova, moglie di Wegener nella realtà), e gelosia per il suo spasimante Florian (l'attore Lothar Müthel). Ma resta incapace di dosare la propria forza e, a maggior ragione, di comprendere le sottigliezze della corte imperiale, dove pure viene introdotto e dove in fondo, sempre per via delle sue doti erculee, non se la cava male.
Più ancora della stella di David che suggella il racconto e che, in prospettiva, assume le caratteristiche di un presagio, il segreto del Golem di Weneger sta nel suo carattere giocoso e di conseguenza serissimo. Il sortilegio, da ultimo, sarà spezzato da una bambina che, proprio come capita ai sapienti del mondo, non sa bene che costa sta facendo, eppure lo fa lo stesso.
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