mercoledì 5 agosto 2020
Uno che ha scritto Moby Dick, capolavoro assoluto (1851), avrebbe potuto vivere di rendita per il resto della vita e invece, per Herman Melville, non fu così. Benché i due romanzi precedenti, Typee (1846) e Omoo (1847), sulle autobiografiche avventure marinare, avessero avuto buon successo, il capolavoro ebbe tiepide accoglienze di critica e di pubblico: soltanto l'amico Hawthorne, l'autore della Lettera Scarlatta (1850), ne fu entusiasta ma, ciò nonostante, Melville si convinse che non avrebbe potuto vivere di letteratura e accettò un posto di ispettore doganale nel porto di New York, stabilendo un precedente illustre: anche Salvatore Quasimodo lavorò presso il Genio civile di Sondrio, andando avanti e indietro in treno da Milano, e Raffaele Carrieri intitolò Il lamento del gabelliere la sua raccolta poetica del 1945. Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway (1951), è un rifacimento forse non del tutto preterintenzionale di Moby Dick e, anche se propiziò il Nobel a Hemingway tre anni dopo, merita l'esilarante parodia che ne fece Umberto Eco, additandolo come prototipo di letteratura kitsch. Soltanto nel 1866 Melville, 47enne, esordì in poesia con elegie sulla guerra americana. Morirà nel 1891, a 72 anni. Moby Dick fu riscoperto negli anni Venti del secolo scorso e nel 1932 il pubblico italiano se ne appassionò nella traduzione di Cesare Pavese. Fabrizio Daverio, esigente lettore di Melville, apprezza le «meditazioni analogiche» che costellano il romanzo. Per esempio: «Un sicuro significato si nasconde certo in tutte le cose, altrimenti tutte le cose varrebbero ben poco e il globo stesso del mondo non sarebbe che un simbolo vano». Per Daverio, questa traduzione di Pavese «non regge»; preferisce la versione di Ottavio Fatica (Einaudi 1975): «Il mondo sarebbe uno zero». Per dire che su Melville e sulle traduzioni non si finirebbe di discutere. Giunge opportuna una piccola antologia delle Poesie di Melville a cura di Franco Venturi, con testo americano a fronte (La vita Felice, pagine 100, euro 10,00). Nella recuperata introduzione all'edizione Fussi 1947, Luigi Berti scrive che tutta la poesia di Melville «si articola su uno sviluppo nel quale predomina il ritmo sonoro sulla logica del pensiero» e, «in un specie di iperuranio platonico vigono le parole perfette e s'affaccia la confusa nostalgia del mare, sparsamente alitando d'una politezza bianca e silenziosa». Peraltro, una certa «retorica americana» è avvertibile nelle poesie di guerra, facendone decrescere l'interesse. Invece, nelle accensioni liriche e desolate del poemetto Il Lago si coglie la tempra del poeta: «Muore, tutto muore! / L'erba muore, ma nella pioggia primaverile / rinasce e vive ancora, / sempre, di nuovo, / vive, muore e vive ancora. / Chi sospira che tutto muore? / Estate e inverno, la gioia e il dolore, / e ogni cosa, dovunque, nel regno di Dio, / tutto finisce, e subito ricomincia daccapo: / manca e cresce, cresce e manca, / ancora e ancora e ancora con violenza / finisce, sempre finisce e ricomincia daccapo – / finisce, sempre e per sempre, in eterno riprende!» Per saperne di più su Melville poeta ci sono le Poesie di guerra e di mare, a cura di Roberto Mussapi, negli Oscar Mondadori (2019).
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