domenica 17 settembre 2017
Credo di poter affermare che quando Gesù pronunciò le parole: Andate in tutto il mondo e predicate la Buona Novella a tutto il creato, il suddetto creato, ancora un po' naïf, non aveva finito di completare lo sviluppo delle amministrazioni consolari, i servizi di immigrazione e i passaporti biometrici. È stato necessario attendere la cristianità perché la funzione pubblica si espandesse e il missionario, per rispondere alla chiamata di Dio, dovesse prima di tutto adempiere alle formalità burocratiche. La sera stessa in cui Padre Gesualdo ci annunciò il nostro invio in Metagonia, cominciai a preparare i bagagli, come un bambino a cui la madre a dicembre dice che partiranno in viaggio l'estate dopo. Non furono tuttavia sei mesi di attesa a fare e rifare ogni giorno la mia valigia, ma quasi un anno. Per entrare nella terra ancora sconosciuta di Metagonia, bisognava passare attraverso lo stato di Valdès, molto conosciuto per la sua instabilità politica. I tanti partiti che si succedevano al potere non la smettevano di cambiare le regole di ammissione in quel paese. Ma quella che si chiama l'“alternanza democratica” non era l'ostacolo più grande alla nostra partenza. Che al potere ci fosse un partito oppure l'altro, la strada era in ogni modo sbarrata da una serie di sportelli antichi, insormontabili e recalcitranti. Appena finito con uno di essi eccone un altro che spuntava come su un'idra. Ci mancava per esempio il modello C4bis o il vaccino contro la febbre rossa a pallini blu. Tornavamo qualche giorno più tardi con i nostri fogli compilati, la puntura sul braccio e gli occhi supplichevoli. La bella impiegata ci guardava con compassione: eravamo preti in abito talare e lei portava una madonnina al collo. Ma in nome della probità che le aveva insegnato il Vangelo scuoteva il capo tristemente dicendo: – No, mi dispiace, ancora non ci siamo… Ci vuole adesso il modello 253-9, non quello vecchio, ma quello appena modificato per la lotta anti-terrorismo… A giorni ce li manderanno… In quella circostanza ebbi altre ragioni per pensare che il nostro superiore aveva avuto torto nell'infliggermi come compagno di apostolato il pesante e brontolone confratello Ugo. Non ci metteva molta buona volontà per ottenere il visto. Sosteneva di esser stato colpito da “fobia amministrativa”. Pregava la Madonna come se Lei potesse rispondere ai questionari e sbrigare le pratiche suo posto. Credo a dire il vero che non avesse molta voglia di partire. Quella che per me era una grazia straordinaria sembrava a lui un fardello. Una volta lo sorpresi anche mentre diceva a uno dei nostri confratelli Ritrovamentisti: «Una volta che li avremo evangelizzati per bene, cosa avremo ottenuto? Un altro paese mal cristianizzato e subito dopo mal scristianizzato, con impiegati d'ufficio che andranno a messa la domenica e ci chiederanno di riempire formulari tutti gli altri giorni della settimana…». Alla fine riuscimmo a prendere un volo per Valdès, superando senza problemi l'equatore e passando da un giorno all'altro dall'autunno alla primavera. Dopo tre giorni a Las Paquitas, la capitale del paese, ci mettemmo in viaggio in automobile e poi a dorso d'asino verso le montagne e lo stretto passaggio che conduceva al limite delle terre metagoniche. Fratel Ugo non era riuscito a scoraggiarmi. Al contrario i suoi sentimenti mi servivano al tempo stesso da cacciachiodo e da bersaglio: più aveva l'aria di pensare «a che serve?», più mi mostravo traboccante di zelo e di esultanza. Ero io che provavo l'emozione degli apostoli della chiesa primitiva. Avevo fretta di addentrarmi in queste terre vergini e andare incontro a popoli selvaggi. Certo, avrebbero potuto non ascoltarmi, tagliarmi a pezzi, farmi bollire nel loro pentolone, ma Dio avrebbe così fatto di me un'offerta eterna alla sua gloria. Non avevo paura del martirio. Ma avevo dimenticato la dissenteria. L'indomani del nostro arrivo a Las Paquitas, caddi ammalato. Fratel Ugo, a cui questa missione non piaceva, era in piena forma, e io che avevo tanta fretta di compierla, mi svuotavo da sopra e da sotto. Certo, il mio confratello mi vegliava, si prendeva cura di me, ma lo faceva con un sottile piacere, rallegrandosi di vedere già sgonfiarsi il pallone del mio «romanticismo apostolico», come lo chiamava lui talvolta. La sua crudele ironia lo spinse anche al mio capezzale per leggermi quel passaggio degli Atti degli Apostoli, capitolo XXVIII, dove si dice: Avvenne che il padre di Publio dovette mettersi a letto colpito da febbri e da dissenteria; Paolo l'andò a visitare e dopo aver pregato gli impose le mani e lo guarì. Che condì subito con questo commento: «Lo vedi, fratello, quel che ti succede si inserisce comunque nella continuazione del Vangelo…». Cosa voleva dirmi, che mi prendevo per san Paolo, ma che non ero al momento che l'insignificante padre di Publius? Questo scherno non era ancora abbastanza. Fra' Hugo pretese di consolarmi aggiungendo: «Pensa che san Luigi, san Giovanni Berchmans e il beato Marcel Callo sono morti di dissenteria… E tuttavia sono stati grandi santi». Pregavo l'Eterno di ridarmi la salute per poter chiudere becco a questo odioso fratello.
(2, continua – traduzione di Ugo Moschella)
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