sabato 11 ottobre 2003
Tutti riceviamo un dono./ Poi non ricordiamo più/ né da chi né che sia. Soltanto ne conserviamo/ pungente e senza condono/ la spina della nostalgia. Già in altre occasioni ho espresso il mio rammarico di non aver potuto conoscere personalmente Giorgio Caproni, uno dei nostri poeti contemporanei più originali e profondi, morto a Roma nel 1990. Per dialogare con lui mi affido, allora, ai suoi versi, che ho spesso letto. Ne trovo alcuni, a me ignoti, in apertura al profilo di un amico teologo, morto da qualche anno, e li cito per una meditazione sulla grazia e la gratitudine. Due parole che hanno la stessa radice ma non lo stesso percorso: infatti, la grazia spesso non genera gratitudine; anzi, può persino portare a un sottile senso di fastidio o di recriminazione nel beneficato. Ma se imbocchiamo la strada dell'esperienza più comune, la forma più semplice per emarginare un dono e il donatore è quella della dimenticanza. Questo vale per i piccoli favori ma anche per i grandi doni, soprattutto per quelli divini, della vita, della salute, dell'amore, della gioia. In modo pessimistico lo scrittore moralista del '600 La Rochefoucauld osservava che «Nella maggioranza degli uomini la gratitudine è solo un desiderio velato di ricevere maggiori
benefici». Quando la riconoscenza si spegne, è perché si sa che non si ha più nulla da ottenere da quella persona"! Tuttavia Caproni fa notare con acutezza che in noi, comunque, permane "la spia della nostalgia". Essa, per fortuna, non è soltanto l'amarezza di non poter ricevere un altro dono, come vorrebbe il filosofo moralista francese. È anche la tristezza per non aver espresso in modo intenso, genuino, affettuoso il nostro grazie a chi ci ha amati con generosità e senza ricatti di riconoscenza perenne.
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