giovedì 10 giugno 2021
«Salviamo chi ci aiuta a Kabul». L'appello di Paolo Mieli sul “Corriere” (7/6) va condiviso e appoggiato, come “Avvenire” ha fatto in più occasioni e anche ieri riferendo a pagina 2 della missione del ministro Guerini a Herat. L'inizio della lunga riflessione di Mieli ha toni costernati: «La guerra l'abbiamo perduta» e «colpisce la scarsa attenzione con cui i media occidentali seguono l'evacuazione militare dell'Afghanistan». Per chi ci ha aiutato la ritorsione dei talebani è certa. «Sarebbe un bene che il ministro della Difesa Lorenzo Guerini (...) prendesse pubblicamente l'impegno a non abbandonare quelle persone a una sorte già segnata». Sempre sul “Corriere” (8/6) Lorenzo Cremonesi raccoglie la loro voce, «Non lasciateci qui, ci uccideranno» e rassicura: «Roma aiuterà gli interpreti afghani» e le loro famiglie, circa 500 persone, in fondo pochissime rispetto alle 18mila persone già salvate dagli americani. «Secondo la Croce Rossa e le maggiori organizzazioni internazionali – ricorda Cremonesi – sono almeno un migliaio gli interpreti assassinati negli ultimi anni che lavoravano per i contingenti internazionali in Afghanistan e Iraq».
È curioso che qualche giorno fa proprio sul “Corriere” (4/6) Andrea Nicastro, nella sua intervista tramite WhatsApp a un portavoce talebano, Mohamed Naim (titolo: «Noi non perdiamo mai»), lunga una pagina intera, non abbia rivolto alcuna domanda sulla sorte degli interpreti... o abbia preferito non riferire la risposta. Nicastro conferma: «L'Afghanistan tornerà indietro di 20 anni, all'idea talebana di islam e “tradizione”», che per le donne «vuol dire burqa, ma anche chissà che altro». In effetti Mieli non ha tutti i torti a lamentare un generale silenzio sulla sorte dell'Afghanistan. Da segnalare, sulla stampa italiana, il servizio di Giampaolo Cadalanu sulla “Repubblica” (4/6): «Persino nelle cancellerie più use al cinismo è ben chiaro che non si tratta solo di lealtà: abbandonare gli interpreti a rappresaglie più che certe è fuori questione».
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