giovedì 15 aprile 2004
La sordità mi ha portato sull'orlo della disperazione e poco è mancato che ponessi fine alla mia vita. La mia arte, soltanto essa, mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo prima di aver creato tutte quelle opere che sentivo l'imperioso bisogno di comporre. Così scriveva Ludwig van Beethoven tra il 6 e il 10 ottobre 1802, stendendo il suo primo testamento: egli aveva ancora davanti a sé 25 anni di vita e avrebbe composto altri capolavori, eppure già era iniziato quel tormento indicibile che per un musicista è la sordità. Se è vero che più drammatica può apparire la cecità, è altrettanto vero che il perdere (o almeno il conquistare a fatica e a brandelli) le parole e i suoni è un grave ostacolo nella comunicazione. E noi siamo fatti per il dialogo, il contatto, la trasmissione di ciò che abbiamo pensato, sentito, vissuto. Se, quindi, il pensiero va oggi a tutti gli audiolesi, in particolare agli anziani che si sentono un po' tagliati fuori dal flusso veloce della moderna comunicazione, illuminante è però il suggerimento di Beethoven. Esso vale per qualsiasi forma di handicap. Se, infatti, si ha una carica interiore, una ricchezza spirituale, una forza di volontà, si riesce sempre a essere presenti nel mondo. A me impressionano in modo forte e suggestivo i campionati dei disabili perché essi dimostrano che c'è una forza e una bellezza anche nell'essere limitati senza per questo lasciarsi scoraggiare. O peggio disperare: questa, infatti, è la via più facile e spontanea,
ma anche la più misera e inconcludente.
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